Tennis e dintorni / Nishikori, dal "progetto 45" alla finale dello US Open

TENNIS – Di Stefano Smeraro

«Molto forte mentale lui è». Kei Nishikori parla un po’ come mastro Yoda, il sentenzioso e rugoso cavaliere jedi di Guerre Stellari. Poche parole, pochi sorrisi, anche quando tutti gli chiedono di Michael Chang, l’ex n.2 del mondo cino-americano campione al Roland Garros 1989 che da un paio di anni gli fa da consigliere tecnico.

Un connubio che evidentemente funziona, visto che battendo nei quarti con una straordinaria maratona in cinque set Stanislas Wawrinka, il campione in carica degli Australian Open, ed in semifinale il n.1 del mondo e finalista delle ultime quattro edizioni Novak Djokovic, è diventato il primo giapponese capace di approdare ad una finale Slam nell’era Open.

L’ultimo a riuscire a toccare la semifinale ai campionati degli Stati Uniti era stato Ichiya Kumagae, nel 1918, quando in Europa non era ancora finita la Grande Guerra. Nel ’22 Zenzo Shimidzu in America si era spinto fino ai quarti, nel 1933 il grande e tragico Jiro Sato – che nel ’34 si suicidò buttandosi da una nave nello stretto di Malacca perché non era riuscito a difendere l’onore del Tenno in Coppa Davis contro l’Australia – aveva giocato le semifinali sia al Roland Garros sia a Wimbledon, perdendole entrambe contro il fenomenale Jack Crawford. Dopo di lui il tennis del Sol Levante aveva dovuto attendere gli anni ’80 e ’90 per applaudire le grandi carriere in rosa di Ay Sugiyama e Kimiko Date (che ancora gioca ad ormai 44 anni), e di Shuzo Matsuoka in campo maschile. Matsuoka, classe 1967, riuscì ad arrivare al massimo fino al n.46 del ranking mondiale, vincendo il primo titolo Atp della storia del tennis giapponese (nel ’92 a Seul) e arrivando ai quarti a Wimbledon nel ’95 sconfitto da Pete Sampras – ed è l’uomo che sta dietro il boom di Kei. Trasformatosi da agonista educatissimo e un po’ rigido in disinvolto e brillante opinionista della tv giapponese, per la quale ha condotto anche un seguitissimo show gastronomico, Shuzo è infatti una delle eminenze grigie del tennis nipponico: il “progetto 45” dal quale è uscito Nishikori, figlio di un ingegnere e di una maestra di piano, è stato battezzato così proprio perché lo scopo del programma era quello di scovare giovani in grado di migliorare il suo record in classifica. I finanziamenti sono arrivati invece da Maasaki Morita, l’ex grande boss della Sony, appassionatissimo di tennis, e oggi si può dire che sono stati yen spesi davvero bene.

Kei prima di Chang ha avuto grandi tecnici al suo fianco, da Bob Brett a Nick Bollettieri a Brad Gilbert, che lo ha seguito per qualche tempo insieme all’italiano Dante Bottini quando Nishikori a 14 anni si è trasferito all’accademia di Bollettieri in Florida. Il suo talento si è rivelato precocemente: nel 2008, a 18 anni e un mese, Kei ha conquistato il suo primo torneo Atp a Delray Beach, il più giovane vincitore di un torneo pro dai tempi di Lleyton Hewitt, ed è entrato fra i top 100 del ranking. Dopo un intervento al gomito la sua ascesa è continuata fra alti e bassi, accelerando definitivamente fra 2011 e 2013, quando ha cominciato a battere top-player del calibro di Djokovic e Federer e si è messo in tasca altri 4 titoli Atp a Tokyo, Barcellona e a Memphis (due volte). La sua superficie è il cemento, ma il suo tennis si adatta bene anche alla terra e questa sua ’universalità’ è dote preziosa nel tennis di oggi. Nel maggio scorso è entrato, primo giapponese di sempre, fra i primi 10 della classifica mondiale; oggi è n. 11 ma i suoi exploit a New York sono destinati a spingerlo più in alto. «Kei ha sempre avuto talento e ha sempre lavorato bene dal punto di vista fisico – spiega Chang – ma tutte queste doti non servono a niente se non entri in campo convinto di poter battere chiunque. Ultimamente ha fatto grandi progressi sul piano mentale, e la vittoria su uno che serve forte come Raonic gli ha regalato grande fiducia». Facile credergli, visto che nonostante i suoi 175 centimetri, più o meno l’altezza di Nishikori (178), Michael l’ammazzagiganti era abituato a fare vedere i sorci verdi a Lendl come ad Edberg, a Sampras come a Becker. «Kei sa che io sono passato attraverso le sue stesse esperienze: per questo non mette mai in dubbio quello che gli dico».

A Flushing il discepolo di Michelino ha rischiato di non giocare per colpa di un infortunio al piede, ma dal primo turno in poi ha decisamente recuperato, confermando negli ultimi turni le sue doti da spietato maratoneta con due successi in cinque set al limite delle quattro ore prima su Raonic (il match è finito alle 2 e 26 ora di New York!), poi su Stan the Man. «Oggi sentivo un po’ di…jet lag, ma più il match andava avanti più mi sentivo bene», ha dichiarato dopo i quarti di finale, e il velo di un sorrisetto compiaciuto è comparso sul suo volto quasi sempre imperturbabile e spesso scostante. «Sono contento di questa vittoria storica, che è di tutto il Giappone. Con Chang lavoro da due anni, cercavo un allenatore e lui si è fatto avanti. Mi dice tante cose, che io cerco di fare, ad esempio di non scoraggiarmi mai, di essere sempre positivo sul campo. Dopo la partita si è congratulato con me ma mi ha anche detto che il torneo non è ancora finito, che ho un paio di giorni per riposarmi e poi concentrami ancora e puntare ad un’altra vittoria». Così parlano i saggi. Che la forza, direbbe Obi Wan Kenobi, sia con il piccolo maestro Nishikori.  

 

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