Us Open. La battaglia di Venus

dal nostro inviato a New York,

Daniele Azzolini

New York. Lei contro Sjogren, non più scienziato, non più sindrome virulentissima, che colpisce il sistema immunitario. Ma avversario. Nemico. E lei testa dura, come sempre. Una che ci dà dentro, che carica a testa bassa. Una gara a chi dirà l’ultima parola. Una prova di sopravvivenza. Figlia di Compton, Venus Williams, là dove le dispute si risolvono a calci negli stinchi. Guerrilla il rapper l’ha spiegato così, e aveva le sue ragioni.

Eppure, la guardi ed è ancora la più bella, Venus. Questione di gusti, non fateci caso. Ma è alta in modo armonico, morbidamente muscolosa, e i trentatre anni le hanno portato in dote una sguardo da donna che sa, e ha preso atto, che non scaverà trincee né fossati, ma sarà pronta a mettere in riga chi si avvicinerà in modo poco rispettoso. Ha i centimetri per farlo, credeteci. E un’indole da donna libera.

Combatte la sua battaglia, Venus, e sono anni. Dal 2010… Oggi era fra noi, domani chissà. Ce ne sarà un’altra, e solo allora si potrà dire se e quanto sarà simile a quella del giorno prima. Potrebbe essere l’opposto, non soltanto nel fisico ma anche nell’animo, perché proverà a essere se stessa e non riuscendovi si demoralizzerà, o sarà aggressiva oltre il dovuto.

Viene da chiedersi chi glielo faccia fare, poi vi sono giornate come quella di ieri, e allora ogni domanda si rivela instabile e pretestuosa, e allora siamo noi a chiederci se convenga davvero porsi simili interrogativi. Il fatto è che Venus gioca contro se stessa, contro un’altra Venus che la possiede. Ed è difficile scoprire quale delle due abbia il comando, finché non scende in campo e si getta nella disfida. La Venus che funziona, quella di ieri, è la Venus di sempre, forse addirittura più in forma del solito, forse più organizzata nelle geometrie, certo più temprata. Una Venus che sa di avere pochi minuti a disposizione, forse un’oretta scarsa, forse poco più. E allora si sbriga, ma non spreca, perché non può più permetterselo. Attacca, se proprio non può cogliere il punto con i primi due montanti che tira. Scende a rete, e ci sa fare, è agile e potente, micidiale nelle volée in allungo e negli smash, più laboriosa nei colpi al volo vicini al corpo, ma solo perché nessuno gliel’ha mai insegnati.

Poi però c’è l’altra Venus. Quella ammaccata, confusa da tre anni di battaglia con la sindrome che la rende lisa e senz’anima nel breve volgere di una giornata, o anche meno, di un’ora, di una partita. Le forze se ne vanno, e del bell’involucro moro, colorato da una cascata di treccine fucsia e bianche, rimane l’ombra.

Ieri Venus si è sbrigata. Nei limiti del possibile. Aveva contro Kirsten Flipkens, semifinalista a Wimbledon, talentosa, numero dodici qui a New York. Certo lucida nel capire che la Venus del primo set l’avrebbe schiantata in un batter di ciglia, e allora disposta a tirare le cose in lungo, come in un match di circolo, palla alta e pedalare. Il primo set è durato 29 minuti. Il secondo, dopo ventinove minuti era ancora sul 2 pari. Non c’è buon cuore, nel tennis, quasi mai. Figurarsi compassione, misericordia.

Ma in campo c’era Venus, quella che senza Sjogren fra le scatole, ancora sarebbe fra le prime e forse contenderebbe alla sorella qualche titolo Slam. Così, alla fine, la nera l’ha spuntata, ha ringraziato il pubblico del suo benvolere, e si augurata di essere ancora se stessa domani, quando giocherà il secondo turno.

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