Resterà per sempre il primo italiano ad aver vinto un titolo slam, a Parigi, nel 1959. Successo che doppiò l’anno dopo. Ed il capitano della squadra che nel 1976 tornò dal Cile con la Coppa Davis, anche quella una prima volta. Nicola Pietrangeli se n’é andato a 92 anni e con lui si chiude una […]
Marco Nocita
A pensarci bene, potrei dare al tennis le sembianze di un essere vivente. Ti guarda, ti studia, ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso. È capace di regalarti estasi assoluta e, dieci minuti dopo, trascinarti nel buio. Ti fa impazzire dalla gioia con un dritto sulla riga e, con la stessa naturalezza, ti manda a terra con un doppio fallo figlio della paura.
Non è solo questione di vincere o perdere. Il dramma, spesso, si consuma dentro la partita, punto dopo punto: un attimo prima voli, quello dopo precipiti. È una relazione intensa, totalizzante, che a volte ti fa sentire onnipotente e a volte inadatto.
E quello che colpisce è che questa altalena emotiva non ha età. La vivi quando sei ragazzo e la vivi quando sei adulto. Ma è da teen-ager che il tennis rappresenta qualcosa di più: un genitore imprevedibile. Uno che un giorno ti accarezza e quello dopo ti dà uno schiaffo sonoro. Ti educa, ti punisce, ti illude, ti forma.
È per questo che, guardando il film Il Maestro, mi sono molto immedesimato nel giovane protagonista che cerca la sua strada con una racchetta in mano. Nei suoi drammi, nei suoi silenzi, nel peso delle aspettative della famiglia che porta sulle spalle, senza averne veramente gli strumenti.
Lì ho rivissuto il mio essere quattordicenne.
Da ragazzino ero forte, e soprattutto mi divertivo da morire. Ero un autodidatta, ore a tirare contro il muro sotto le proteste dei vicini. Quando mio padre capì che quella passione non era un capriccio, mi portò da uno dei maestri di Crotone. Imparai in fretta.
Il primo torneo della mia vita lo giocai in casa, sull’erba (sintetica) del Tennis Club Costa Tiziana. Lo vinsi. Sembrava avessi conquistato Wimbledon: abbracci, sorrisi, la gioia traboccante di una famiglia che vede qualcosa fiorire. Era il torneo della città, ma per noi era un segnale, un inizio.
Così decidemmo di provarci davvero, ma stavolta a livello regionale.
Iniziò il circuito Miller e io mi iscrissi pieno di speranze. La prima tappa fu al Circolo Tennis Polimeni di Reggio Calabria. Non la scorderò mai: primo turno, contro un pari età, io convinto di avere in mano tutte le risposte. Presi una delle stese più memorabili della mia vita. Feci un game in due set. Eppure, la parte più dura non fu il campo. Fu il ritorno.
Silenzio in macchina, atmosfera da funerale, la delusione che faceva più rumore di qualsiasi parola. Mia madre soffrì talmente tanto che non venne più a vedermi giocare. Da allora mi accompagnò solo mio padre. Col tempo ho capito che non eravamo pronti: né io, né loro.
Fu anche in quegli anni che scoprii qualcosa di fondamentale: la solitudine del tennis non ha paragoni.
Io ebbi la fortuna di giocare anche a pallacanestro, di fare un campionato juniores. Le sconfitte sul parquet non lasciavano mai l’amaro in bocca di quella sul campo da tennis: si tornava negli spogliatoi insieme, si scherzava, si divideva la frustrazione e nessuno portava a casa la colpa sulle proprie spalle.
Ma allo stesso tempo, e lo ricordo nitidamente, nessuna vittoria del basket mi regalò mai l’esplosione emotiva, la sensazione di riscatto, la vertigine quasi fisica che provi quando vinci una partita al terzo set. Il tennis non smorza: amplifica. Ti fa soffrire di più e gioire di più. Ti toglie il doppio e ti restituisce il triplo. È un rapporto sbilanciato, ma irresistibile. Il tennis ti costruisce e ti distrugge, a volte nella stessa giornata.
Perché il tennis è così: una carezza e uno schiaffo.
Se impari a stare in piedi dopo lo schiaffo, la carezza te la godi davvero; sempre che il tennis non cambi mano. Coraggio.