Federer e Nadal, le due religioni

Questo è un capitolo tratto dal libro del 2014 “Solo uno- Analisi di una rivalità”, scritto da Rossana Capobianco e Riccardo Nuziale

Non lo riconosceremmo più, ormai, quel tennis. Quello riservato solo a pochi, quello che gli amici ti guardavano come fossi un extraterrestre quando confessavi di rimanere a casa per seguire la finale di Wimbledon o la semifinale dell’Open del Canada, rifiutando inviti alle feste in spiaggia o a una serata sbevazzona.

Quel tennis era di chi lo aveva scoperto e custodito gelosamente con sé. Era speciale, solo tuo. E di qualche altro; di una nicchia che conoscevi appena sul finire degli anni ’90 sui primi forum in rete. Prima, la supponevi
soltanto: si fa fatica adesso ad immaginare un universo privo di internet e di eccessiva condivisione, eppure esisteva. Si guardava la partita, si tifava quasi in silenzio, si leggevano il giorno dopo gli articoli (pochissimi) sui quotidiani o, mensilmente, sulle riviste specializzate.

Volendo forzare il paragone, è l’esatta distanza tra i mille sms al giorno su WhatsApp e le lettere o le telefonate al numero fisso di quello che ti piaceva al liceo: gli appuntamenti senza nessuna
garanzia di rintracciabilità cinque o dieci minuti prima, il romanticismo amaro di un due di
picche che non puoi evitare.
Federer e Nadal, complice l’avvento di internet sempre più invasivo e veicolo quasi
assoluto di comunicazione, hanno dato il via ad una nuova era del tennis. Non solo per le
loro gesta in campo, ma per quello che le gesta e i personaggi, la loro precisa ed evidente
contrapposizione ha creato.
Niente che in Italia – ma non solo – non si conosca già, niente che ci sia ignoto: il calcio
nasce, cresce e mai morirà per via di contrapposizioni storiche, maturate col tempo,
divenute persino status sociale. E accade così che il tennis che viene fuori da questa
evoluzione mediatica è quello di chi non beve più un té caldo all’All England Club
applaudendo pacatamente ad un servizio vincente o ad una buona volée stoppata; si inizia
a discutere animatamente, si creano fazioni, sfottò, pagine su social network,

teamFederer, #teamNadal.

Addirittura per le finali tra i due, qualche cinema con le sale per il 3D trasmette le partite:
non mi è onestamente mai capitato di assistere, ma posso ben immaginare i commenti e
la caciara all’interno di quelle sale. Basta andare a spulciare tra le discussioni sotto gli
articoli on-line, su Facebook, i vari forum, basta guardarsi attorno in un Centrale qualsiasi.
O sei Federer o sei Nadal. O sei la purezza del gesto, l’eleganza del tocco, il gioco
propositivo e la coordinazione precisa o sei la forza, la resistenza, il gesto gladiatorio, la
forza mentale. O sei fighetto o sei tamarro. O sei istinto o sei tattica. O sei destro o sei
mancino.
Non ci sono vie di mezzo tra i due e la loro rivalità si basa su questa netta distanza.

Le origini del tifo “mainstream”
Il 2005 è solo un assaggio: è l’anno in cui il mondo scopre Rafa Nadal. Il mondo del tennis
e non solo. Federer soltanto una stagione prima inizia il proprio dominio, raggiungendo
livelli che gli altri non sono capaci di raggiungere; emblematica in proposito una frase di
Andre Agassi, nella propria bellissima autobiografia, nella quale parla di quella finale degli
US Open persa contro Roger proprio nel 2005. Agassi gioca bene, si batte ancora come
un ragazzino, sfrutta tutta l’esperienza e l’anticipo di cui è capace e mette in difficoltà
l’indiscusso re del tennis; poi, dice, “lui è andato in un posto in cui io non potevo andare”.
Eloquente e piuttosto esplicativo: uno dei grandi meriti di Roger Federer è quello di avere
innalzato il livello di questo sport così tanto da creare un dominio indiscutibile che ha

costretto quelli che venivano dopo e che volevano misurarsi con lui a trovare delle
contromisure di livello adeguato, sebbene con modi e stili diversi, adatti all’evoluzione
tecnologica del tennis e figli di essa.
Nadal doveva essere così per contrastare quel Federer: zio Toni lo sapeva bene e così ha
progettato (e anticipato) la crescita professionistica del nipote. Mancino costruito lo era già
da bambino, quando lo svizzero ancora non era nemmeno tra gli juniores. Mancino perché
è sempre un fastidio ulteriore per gli avversari: problemi conseguenti nel lancio di palla
non naturale? Con il lavoro si impara a fare tutto, sempre stata questa la filosofia vincente
in casa Nadal, a Manacor, nella splendida isola di Maiorca. Di contro Federer è stato un
teenager ribelle che spaccava racchette, ricercava la perfezione e non si dava pace
quando non riusciva a trovarla. Era l’incostanza fatta tennista e durante i primi anni di
professionismo credeva che il suo braccio avrebbe pensato a tutto, pigro com’era, salvo
poi ricredersi grazie al suo preparatore di sempre, quel Pierre Paganini a cui il tennis di
Roger deve tanto, per quel gioco di gambe danzante che gli ha sempre permesso di
colpire la palla così bene e in tempo. Quando arriva Rafa nel tennis che conta, è già
pronto: ha muscoli prominenti, schemi affinati e una lista di cose da fare in campo. È “a
boy on a mission”. La missione è quella di rompere il dominio attraverso un contrasto
chiaro e senza fronzoli: bisogna complicare le cose a quell’extraterrestre, mettere qualche
dubbio tra le sue convinzioni di essere il più forte e per distacco. L’ATP e il baraccone che
si porta appresso ringraziano, abbiamo una sfida, amici.


La contrapposizione che porta al tifo probabilmente si concretizza in quella storica, epica
partita a Roma nel 2006, una finale lunga cinque set nella quale Federer, pur giocando un
tennis divino, manca due match point e Nadal vince lottando e consacrandosi Re della
terra battuta, una volta per tutte. Lì ci si divide tra l’ammirazione per chi perde di fronte alla
forza e alla resistenza e la stima per chi riesce a neutralizzare un tennis così completo e
bello da vedere fino a batterlo e prendersi la gloria. In quel momento nascono gli ultras del
tennis: non necessariamente persone che vedono questo sport da molto tempo ma che ne
sono attratti grazie a questi due protagonisti, molto in vista anche grazie ad un’esposizione
mediatica notevole, sponsor, e cordiali l’uno con l’altro. Cordiali non sono invece i loro
tifosi, iniziano gli insulti a Federer “colpevole” di essere un caghina rispetto ai vamos del
suo avversario, così grintoso e affamato di sangue e vittoria; inizia l’odio per lo spagnolo,
reo di intaccare un assolo fin lì incontrastabile, di esasperare il gioco, di agitare le danze
come i neozelandesi del rugby con la loro “Haka”, svilendo questo sport di una nobile
pacatezza.
La tendenza si diffonde e arriva a essere religiosa: il tifo, prima di ogni cosa, è
identificazione. Rispetto a quello che si è o si vorrebbe essere, rispetto a quello che ami, a
quello che eccita il tuo senso più estetico. È imperativo categorico, poiché, secondo
Kantiana accezione, è necessario. E non ha bisogno di un “ritorno” a tutti i costi.
Nel tifo, nella purezza del sentimento e della disposizione che lo accompagna, non
esistono forse; non esiste tempo e non esiste esitazione. Non esiste ragione, sebbene la
ragione possa accompagnare qualcosa che non sai spiegare.
Il tifo, che può essere virtù, può certamente anche degenerare, come tutte le passioni,
come tutto ciò che deve fare i conti con della materia cerebrale.
È tutto questo che fa dello sport – e dunque anche del tennis – un fenomeno di successo. È

tutto ciò che ha portato all’entusiasmo e che porta a discussioni, che riempie gli stadi,
affolla di calore gli eventi. E come l’amore viscerale, è esclusivo, perché nel tifo non c’è
posto per le scuse e le condizioni del caso.

L’eccezione della deriva “Fedal”
Chi sono i Fedal? Il nome dovrebbe dirvi tutto. Esatta sintesi di Federer e Nadal, i Fedal
sono quei tifosi che non riescono a scegliere: meglio, non vogliono. È quell’anomalia del
tifo che non ti spieghi e col tifo così come descritto sopra non ha nulla a che vedere. I
Fedal però riescono perfino ad essere più fanatici di chi prende una posizione chiara:
l’essenza della loro si basa sulla presunzione che i due siano amici e che ci sia in corso
una sorta di “bromance” (per chi non è familiare con questo neologismo anglosassone,
una storia di fratellanza affettuosa) tra i due. Ora, Roger e Rafa non sono mai stati scortesi
l’uno con l’altro, ci sono state occasioni nelle quali c’è stata più che cortesia e il rispetto
non è mai mancato: niente di simile a McEnroe/Lendl e al loro sbandierato odio, anzi.
Definirli amici e fratelli è però una forzatura di chi vuole appositamente romanzare su una
rivalità.
Questa follia, comunque, si diffonde. Nascono siti web e sugli spalti puoi scorgere t-shirt
con i due che si abbracciano dopo una sfida o dopo un’esibizione, twitter in brodo di
giuggiole per un video dal dietro le quinte di uno spot in cui ridono a crepapelle. Ma come
può chi tifa (e non semplicemente simpatizza) farsi piacere due cose così diverse tra loro?
Come amare il giorno e anche la notte. Come a Roma essere “daaa Roma e ddaaa
Lazzie”.
Eppure succede e questo non fa che contribuire alla partecipazione emotiva e di interesse
di gruppi di persone, piuttosto folti, che il tennis non hanno mai capito che fosse prima di
allora. Un peccato mortale? No di certo, lo sport ha bisogno di spettatori e telespettatori
per arricchirsi e fare arricchire: in un mondo nel quale il business è la priorità le orde di
ragazzine che creano collage di foto con i due beniamini portano visibilità e tanti soldi.
Quello che perdiamo è la preparazione di un pubblico “addestrato” al tennis e attento alle
questioni tecniche che, per quanto certamente più noiose, sarebbero prioritarie nelle
analisi. Ma il tifo non è razionale, così come non lo sono i Fedal.

Il novecento di Federer, Rafa il “Don Chisciotte”
Lo Stoffgeschichte è la storia dei soggetti letterari individuati come elementi costitutivi del
contenuto delle opere letterarie; si tratta di ricondurre ad elementi semplici e tradizionali i
diversi temi sui quali vivono e si sviluppano le letterature, senza che vi sia una vera
evoluzione se non quella che nasce dalla loro combinazione.
Gli studi comparatistici letterari si basano su una teoria più complessa che non staremo
qui a sviscerare ma che comprende uno sviluppo di “temi” e “miti” che rispecchiano
società, esigenze e travalicano o rispettano il cosiddetto “orizzonte delle attese”.
Federer e Nadal si scambiano in tal senso il ruolo cronologico, perché troppo ancorati alle
loro caratteristiche tematiche e in un certo senso mitologiche.
Rafa, non certo perché provenga da terra iberica, è quello che Don Chisciotte della
Mancia (El ingenioso Hidalgo don Quijote de la Mancha il titolo originale) ha rappresentato

all’epoca e secondo le intenzioni del suo autore, Miguel de Cervantes Saavedra. È un
incontro di più generi, ma la “missione” di Cervantes è quella di sottolineare
l’inadeguatezza della nobiltà dell’epoca a fronteggiare i nuovi tempi che correvano in
Spagna: Nadal nasce inventore delle contromisure da adottare contro l’assolutismo
svizzero e in qualche modo è responsabile poi di un nuovo modo di intendere il tennis,
sebbene lo stesso Roger giochi anche lui un tennis a tutto campo. Ma rompere il gioco
altrui per costruire il proprio è un’invenzione tutta maiorchina, e come Cervantes che irride
la letteratura cavalleresca precedente iniziando un nuovo corso letterario fin lì non atteso,
Nadal mostra al mondo intero che c’è il modo di ribellarsi e prendersi la gloria senza
necessità dell’imitazione della perfezione federeriana, quei mulini a vento che solo il genio
può concepire.

Giace qui l’hidalgo forte
che i più forti superò,
e che pure nella morte
la sua vita trionfò.
Fu del mondo, ad ogni tratto,
lo spavento e la paura;
fu per lui la gran ventura
morir savio e viver matto.


La dimensione tragica presente nel Don Chisciotte con la delusione che l’uomo subisce
quando la realtà si fa sempre più chiara non è però esattamente rintracciabile nei tratti
della storia nadaliana: Rafa è epico, eroico; soffre di infortuni cronici ma il superarli
costantemente donano alla sua figura una componente solenne e leggendaria. È l’Achille
di una attuale Iliade.

Più complessa e moderna la comparazione letteraria di Federer, il campione sensibile che
diventa disumano sul campo fino a che la sua nemesi non si concretizza davanti a lui.
L’Ulisse di Joyce apre il genere del romanzo novecentesco, basato sull’”io” e sviluppato
attraverso la tecnica del “flusso di coscienza”.
Il Federer di inizio impero e fuori dalle loro sfide è un Ulisse omerico, un personaggio
eroico ed inviolabile nei suoi valori, tennistici soprattutto. È quasi freddo, sebbene freddo
non nasca e del cinismo ha imparato a fare arte.
Il Roger dei primi anni di professionismo e quello che si confronta con le difficoltà di un
avversario perfetto per batterlo oltrepassa i temi e i miti antichi di eroismo ed entra in un
quadro molto più drammatico e complesso che in molti non comprendono e per questo
disprezzano o etichettano con facilità “pavido”, senza dar peso all’intelligenza e alla
sensibilità di un eroe moderno che vede e percepisce troppo per superare facilmente
l’ostacolo tecnico e poi psicologico chiamato Rafa.
È lo Stephen Dedalus che si contrappone a Leopold Bloom in Joyce; spirituale,
problematico, mostra strati alterati di coscienza tra una palla break e la confusione dovuta
alle molte scelte da poter compiere per rispondere ai problemi tecnici che quell’Achille di
terra iberica propone senza farsi scrupoli.

È come se la natura richiamasse Federer a quello che è: un quindicenne che aveva
l’ambizione diventata ossessione di essere il migliore e di fare del tennis un’arte e che ha
dovuto violentare per amor di vittoria una paranoia continua, la lotta tra convinzioni errate
e vie giuste da seguire, il sospetto di un’indicazione sbagliata, la paura di violare la
bellezza, la chiusura a consigli spassionati. Una coscienza che ha saputo domare come
Molly Bloom, la moglie fedifraga di Leopold, che attraverso un celebre monologo interiore
senza intervalli di punteggiatura, è capace di ridimensionare le deviazioni e le ossessioni
dei due uomini che si trovano in un bordello.

E io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli
chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì allora mi chiese
se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e
per prima cosa gli misi le braccia intorno
sì e me lo tirai addosso
in modo che mi potesse sentire il petto tutto
profumato
sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi
sì voglio sì.

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