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La morte di Gianni Minà, il ricordo di Panatta: “Il mio amico invisibile”

Era il mio amico invisibile. Ma c’era. E dato per scontato questo, si poteva venire a patti con tutto. Dov’è Gianni? Dietro la panchina, sul campo. E che ci fa? Sto giocando una finale diosanto… Anzi, la Finale, la prima dei tre desideri che avevo espresso a Barbetta, altro mitico personaggio del c’è e non c’è, ma è meglio che ci sia. Roma, Parigi e la Davis. Barbetta era l’entità suprema di tutto, forse era Lui in persona, ma papà Belardinelli lo chiamava così, e noi, bravi ragazzi di Formia, i conti li facevamo con Belarda, prima di tutto. Poi anche con Barbetta, ci mancherebbe altro… Ma era la Finale di Roma, e Gianni Minà che ci faceva lì? Si era intrufolato, altra dote che possedeva e che dispensava in mille forme artistiche. Era entrato in campo durante una pausa del gioco e si era nascosto dietro la mia panchina.

L’ultima cosa che ti aspetti, mentre giochi una finale degli Internazionali? Sentire una voce che ti chiede come va. Non una voce indistinta tra quelle del pubblico, macché, era una voce lì dietro, a un passo. Mi fece sobbalzare? Fosse stato un altro gli avrei dato una racchettata in testa. Ma era Gianni, e con Gianni come potevi? Era una persona amichevole, che ti metteva a proprio agio. Nelle interviste ti sembrava di chiacchierare con un amico, e lui era proprio questo. Un amico.

Così, eccolo dietro la panca che mi chiede come sta andando, che era di suo qualcosa di sconvolgente perché i pensieri di chi affronta una finale, in momenti come quelli, guizzano tra passato e futuro, ma non tengono conto del presente, che è lì impresso sul tabellone segna punti. Si pensa a come è stato giocato un colpo, se una certa tattica stia dando i frutti sperati, e a come cambiare o proseguire nei game a venire.

E invece, Gianni era lì dietro la panca e mi chiedeva, ehi Adriano, come va? Credo che gli risposi qualcosa del tipo «boh? Insomma… Va!». Poi gli detti il punteggio. E lui mi fece la domanda delle cento pistole. E ora? Era scaduto il minuto del cambio di campo. Impapocchiai un impareggiabile, «e ora si torna a giocare». Poi lo vidi armeggiare dietro la panca di Guillermo e mi venne da sorridere, perché Vilas – con cui ci si voleva un bene da matti – mi guardava strabuzzando gli occhi, come a chiedermi «che faccio con questo qui?». Anche io gli risposi con uno sguardo, «bello mio, sei a Roma, ma che pretendi?».

Gianni Minà era l’unico che potesse fare qualcosa del genere, l’unico cui potesse venire lo schiribizzo di farlo, l’unico al mondo che vi sia riuscito. Entrare in campo con il microfono durante una finale, per intervistare i protagonisti di un match non ancora terminato… Lo si è visto una sola volta nella storia del tennis. Quella!

Ma l’amico invisibile era anche l’amico concupito, perché era il miglior antidoto contro lo stress, contro la noia. Conosceva tutti, e già sapevi che avrebbe conosciuto anche quelli di cui si sarebbe parlato di lì a poco o di lì a molto. Concetto che Fiorello tradusse in uno dei più azzeccati cult radiofonici, quello dell’eravamo io, Bob De Niro, Fidel Castro e Gabo Marquez, al quale di giorno in giorno se ne aggiungeva uno, da Ivan Pedroso a Paco Peña, fino a Carlo Croccolo. «Io vulisse avé l’aggenda e’ Minà», diceva Troisi, al quale Gianni voleva un bene profondo.

Concupito e indispensabile, Gianni, perché ti descriveva le persone che aveva conosciuto, e non era davvero come ascoltare un elenco delle presenze, il c’era questo e c’era quello, ma un modo per togliersi l’uzzolo di sapere com’erano davvero quei “grandi” che sarebbe stato difficile conoscere. Alì, Maradona, Chè Guevara. Insomma, ad ascoltare Gianni potevi starci delle ore, ed era il modo più bello per mettersi alle spalle tutto, dal tennis al resto.

Si avvicinò al nostro gruppo negli anni della Davis, ma la nostra conoscenza, tra me e lui, si affinò con le serate a casa di Renzo Arbore, e i ripetuti incontri alla Bussola sul Lungomare di Pietrasanta, dove si andava ad ascoltare Mina, la mia, la sua preferita. Serate che è difficile dimenticare. Solo incrociarlo ne valeva la pena. E per salutare tutti quelli che erano lì con lui ci si metteva mezz’ora. Ma quando Mina faceva squillare le prime note, entrambi cadevamo in trance. Credo fu proprio lui a portare Mina sulle pagine di Tuttosport, dove la nostra signora della canzone scriveva una rubrica tra attualità, ricordi e altro che si abbinasse allo sport. La leggevo sempre, era imperdibile, perché con Mina non ero mai andato oltre i saluti e gli auguri e il fatto che avesse scelto un quotidiano sportivo per far sentire il suo pensiero, quando ormai si era già ritirata dalle scene, mi incuriosiva da morire. Proprio in quel periodo ricevetti una telefonata da Mina, forse il mio numero gliel’aveva dato proprio Gianni. «Ciao Adriano, sono Mina». Mi era sembrata lei, ma non ero in vena di scherzi. Risposi, «sì, e io sono Ornella Vanoni», e chiusi la telefonata. Mi richiamò un secondo dopo, era proprio lei. Chiesi scusa, l’ascoltai, ma la “grezza vulgaris” era ormai fatta.

Un’altra cosa mi unì a Gianni, tempo dopo. L’intervista a Fidel Castro. Forse non ci crederete, ma entrambi riuscimmo a metterlo davanti a un microfono. Lui con tutta l’ufficialità del caso, per un’intervista famosa, della quale poi non volle svelare alcun particolare, credo per la grande venerazione che aveva nei confronti del Lider Maximo. Io in occasione di una gara di motonautica offshore a L’Avana, che Fidel venne a inaugurare. Ero lì come pilota, ma anche con il compito di racimolare qualche spunto e qualche intervista per “La 7”. Lo vidi e mi dissi, «questa non me la posso perdere». Gli posi il microfono sotto il naso e lui fu carinissimo, rispose alle domande che mi vennero in mente, tutte ovviamente sull’apertura di Cuba a uno sport così particolare come una gara tra bolidi del mare.

Ricordi lieti per un dolore grande. Spero di aver ricordato Gianni come sarebbe piaciuto a lui, in allegria. Mi diceva spesso, «Adriano, sai qual è il mio difetto? Non so rispondere alla violenza. Non la sopporto, e mi crea come un blocco. Credimi, ci soffro». Io gli rispondevo da bravo romano. «Prova con due pizze in bocca, precise e definitive». Se la rideva. Mi mancherà tanto…

Adriano Panatta

Semplicemente l'ultimo italiano ad aver vinto una prova del Grande Slam.

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Adriano Panatta

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