Serena Jameka Williams: essere leggenda

Tutti in piedi, perché qui serve una standing ovation infinita.

Si è conclusa la carriera di chi può legittimamente ambire al titolo di più grande di sempre. Non come tennista, ma come sportiva in generale. Uomo, donna. Non importa.

Un’autentica leggenda ha completato un percorso durato 25 anni in uno sport, il tennis, dove soprattutto a livello femminile superati i 33 anni le possibilità di essere ancora competitivi ad alti livelli crollano perché subentrano tante cose: la fatica, la voglia di cambiare pagina nella propria vita. Tutte motivazioni che sarebbero più che valide. Per Serena Williams invece questo sport ha rappresentato la miglior versione di se stessa. Nata tennista sulla spinta del padre Richard, cresciuta fianco a fianco della sorella Venus. È impossibile dire ora quanto sia grande la magnitudine di un percorso che non ha eguali, sia a livello di successi che di traguardi e muri abbattuti.

L’ultima partita della sua carriera ha emozionato e commosso tutti. La forza e la determinazione messa in campo per oltre tre ore hanno colpito per come hanno riso in faccia al tempo che passa, alla vita che prosegue, alle avversarie che ormai potrebbero essere sue figlie. Roberta Vinci, in telecronaca per Eurosport, ha cominciato a respirare profondamente dopo l’ultimo punto della statunitense, tornando a parlare solo dopo un po’ con la voce sensibilmente emozionata. Proprio lei che forse le ha dato uno dei dispiaceri più grandi quando nel 2015 si mise in mezzo a New York tra lei e un Grande Slam che sembrava ormai fatto.

Serena ha perso, ma in fondo ha stravinto. Perché anche stasera ha dimostrato a tutti cosa serve per raggiungerla, consapevole che nessuna al momento ha quella forza agonistica di avere sempre la soluzione giusta al momento giusto. Trovare un ace al centro sul 4-4 in un tie-break durissimo dopo essere stata rimontata da 4-0, affrontare l’ultimo set della carriera salvandosi in almeno una decina di occasioni delicate. Suggellare l’ultima recita con cinque match point cancellati in cui a un certo punto non si sapeva nemmeno più cosa dire se non ridere, di gusto. Ridere a 23 titoli Slam, a un dominio che è divenuto brutale dittatura tra 2012 e 2015, quando già aveva 31, 32, 33 anni e quando già si alzavano dubbi sulla sua tenuta quando nel 2009 veniva squalificata (giustamente) dallo US Open per la discussione con la giudice di sedia e un anno più tardi non partecipò al torneo per un taglio al piede a cui seguì un’embolia. Rientrò, chiese per la prima volta aiuto a un coach che la seguisse a tempo pieno, e tempo qualche mese ha cominciato a vincere ogni cosa possibile.

Altra stoffa, altra mentalità. Era così a 20 anni, a 30 anni, lo è stato ancor di più 40. Non esistono eguali, e chissà mai se ritroveremo qualcuna come lei. C’è gioia e dolore in questo momento, perché abbiamo avuto il più degno dei ritiri e proprio per questo sale forte il nodo in gola. Queste ultime partite di Serena ci hanno ricordato bene chi era e quanto di buono abbia fatto contribuendo a far diventare il tennis uno sport universale tanto quanto i tre mostri del tennis maschile.

Spiace solo, come contr’altare, che ci siano stati momenti duri con lei in campo. Dalla citata squalifica allo US Open 2009 alla finale del 2018 persa in quel modo contro Naomi Osaka, al confronto duro con Eva Asderaki nel 2011 (sempre US Open) o quando si faceva prendere dalla sua emotività. Lo aveva detto nell’articolo in cui anticipava il ritiro: voleva tanto che il suo caso fosse come Caroline Wozniacki o Ashleigh Barty, che hanno vissuto il momento con tanta leggerezza e soddisfazione. Lei però è diversa, anche in questo. Molto emotiva, trascinata in positivo e in negativo da questi sentimenti fino a venire considerata quasi teatrale nelle smorfie, a parlare di sé in terza persona. Ma questo non è mai stato uno sport per gente normale. E in fondo lei di normale ha ben poco, ormai proiettata allo status di leggenda.

Buona vita Serena, e grazie per le emozioni di un ultimo Slam così.

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