A Luigi Serra, un amico

«Daniel, come stai you? Buono?». Luigi Serra parlava l’immigratese, e lo faceva con l’orgoglio di chi aveva lasciato l’Italia amandola ed era grato di aver trovato gli Stati Uniti. Gli era andata bene, me lo diceva sempre, e da nuovo americano non rinunciava ai piaceri di chi non ha mai smesso di sentirsi italiano. Gli spaghetti cotti in un certo modo, «tanto me li faccio mandare dall’Italia, che non scuociono, mentre qui, mamma mia», quel bisogno di fare le cose a regola d’arte, da vecchio artigiano, e la generosità nei rapporti con gli amici. Le foto? «Devono essere d’autore, sennò che ci sto a fare? Dico io, non ti riesce sempre? Non importa. Almeno il tentativo va fatto». Punti di vista che mi snocciolava sedendomi accanto, sulle panchine più isolate dello USTA Centre che cercavo per fumare un toscano in santa pace. Lui mi veniva dietro. «Fumi Luigi?». «No. Fuma tu anche per me. Tu pippi, io assaporo». 

In America aveva tirato su una famiglia grande e affettuosa, che conoscevo perché la mischiava sbadatamente alle foto che mi mandava. Nadal, Nadal con zio Toni, banchetto nel giardino di casa, Nadal e Moya… Banchetto? Questa era la sua, con moglie, fratello, gli amici, un bel po’ di bimbi a far casino. Un fazzoletto d’Italia in terra straniera. Volti di brave persone.

Il Covid se l’è portato via in una manciata di giorni. Due settimane appena per far sparire una voce alla quale eravamo tutti affezionati. La stessa che mi diceva. «Dani, ti uazzappo da Indian Wells. Sono il tuo inviato mandato da Ciaccia. Vuoi anche le foto delle qualificazioni?». Solo se ci sono personaggi, Luigi, solo se c’è qualcuno su cui scrivere. «Ci penso io?». Sì, Luigi, pensaci tu.

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