Ci sarà anche Danielle Collins al via della prossima stagione tennistica. La statunitense, che concluderà il 2024 in top-10 dopo gli ottimi risultati della prima parte di stagione, prenderà parte con la maglia degli Stati Uniti alla United Cup che inaugurerà l’anno nuovo tra Sydney e Perth. La notizia è che la finalista dell’Australian Open […]
Abbiamo tutti fatto invasione
Per sintetizzare questo momento, abbiamo scelto una nota immagine “vintage” del numero 1 del mondo, Novak Djokovic. Non si poteva fare altrimenti, essendo lui il rappresentante più illustre del tennis odierno. Quel punto perso nella semifinale del Roland Garros 2013 contro Rafa Nadal a causa di un avanzamento mal frenato, un’invasione che gli costò carissimo. Sopra 4-3 e servizio, anziché la palla del 5-3, regalò la possibilità di rimonta che Nadal non si fece sfuggire.
L’episodio sintetizza perfettamente il momento che stiamo vivendo, perché in fondo il tennis rappresenta come meglio non si potrebbe la nostra attuale quotidianità: i due contendenti non si toccano mai, stanno “a casa propria”, la distanza di sicurezza è costantemente garantita o quasi.
Sport mai così in ginocchio
Ma ora abbiamo tutti fatto invasione. Con la sospensione di Miami e Fed Cup, siamo già a tre grandi tornei rinviati per il Coronavirus e il conteggio con ogni probabilità è destinato a salire. L’intera stagione su terra è di fatto a fortissimo rischio, per rimanere al futuro più recente.
Proprio come Djokovic quel giorno, vi è stato un chiaro errore di valutazione, che ha portato a dare risposte continuamente contraddittorie, poco chiare, confusionarie. Il mondo dello sport non ha saputo essere fermo e univoco nelle sue decisioni, portando ai noti aggiornamenti dei primi casi di positività in serie A (il giocatore della Juventus Daniele Rugani) e NBA (Rudy Gobert, centro degli Utah Jazz).
Il virus sta prosciugando lo sport professionistico come solo le due Guerre Mondiali erano riuscite a fare. Anzi, di più: mai il tennis USA era stato costretto a fermarsi. Gli US Open sono stati infatti l’unico Slam ad essere giocato durante gli anni bellici. Con la cancellazione dello Sunshine Double, anche gli Stati Uniti hanno dovuto inchinarsi.
Si può giocare a lungo a porte chiuse?
La sospensione è oramai la soluzione pressoché presa all’unanimità, ma l’ovvia domanda di tutti gli appassionati è quanto questa possa durare e se vi siano alternative valide.
Un recente articolo della testata Rivista Undici si è posto il quesito se le porte chiuse siano il futuro del calcio e dell’intrattenimento sportivo in generale, ponendo come piatto forte della tesi la sempre migliore qualità del mondo streaming/pay tv. In altre parole, a livello sia logistico che economico, la fruizione casalinga delle partite è per il tifoso sempre più conveniente.
C’è del vero e nel tennis è stato recentemente sperimentato per noi italiani, con la sfida Davis di Cagliari contro la Corea del Sud. Ma è altrettanto vero che tale tesi non considera la grandissima forza emozionale dell’esperienza in loco. Esperienza che una percentuale molto nutrita di appassionati di sport non vorrà mai vedersi togliere. Con naturalmente i conseguenti benefici economici per gli organizzatori di tali eventi.
Per fare un esempio, questi sono i dati riguardanti gli spettatori paganti 2019 dei grandi tornei dell’ipotetico resto di stagione tennistica (nota: l’asterisco indica che non si sono trovati dati attendibili per quello specifico evento):
Monte-Carlo Masters 135,656
Mutua Madrid Open 278,000
Internazionali d’Italia 223,455
Roland Garros 480,575
Wimbledon 500,397
Canadian Open *
Cincinnati Masters 198,044
US Open 737,872
Laver Cup 100,000
Shanghai Masters 150,000
Paris Masters 151,000
WTA Finals *
NextGen ATP Finals 28,400
ATP Finals 242,883
Davis Cup Finals *
Stagione ATP (63 tornei) 4,823,370
Numeri che vanno oltre il romanticismo e approdano a evidenti interessi economici a cui nessun grande organizzatore vuole rinunciare.
È troppo presto per dare risposte, in questi giorni di domande. Soprattutto perché troppe risposte si stanno dando con eccessiva facilità. Una cosa però la si può dire. Forse mai come stavolta, la formula “quiet, please” del giudice di sedia ha il sapore della paura ancestrale.