Umana cosa è avere compassione per i più deboli: ma chi segue il tennis ha il diritto di non provare a tempo indefinito questo nobile sentimento. E nel caso del ricambio generazionale ne ha perfino il dovere. Lo ha detto bene Safin, che non ha perso il dono della sincerità dopo aver buttato via le racchette: ‘I giovani di oggi non sono forti. E non è accettabile che Federer, Nadal e Djokovic vincano ancora i major e siano in testa alla classifica’ (Nole non ancora tornato in vetta ma è questione di poche settimane, ndr). Questo Us Open purtroppo ha confermato una volta di più le parole del buon Marat.
D’accordo, i soliti tre sono alieni, i più forti di tutti i tempi, gli inarrivabili ecc. Ma il modo in cui ancora predominano nel circuito è francamente imbarazzante ed è giusto chiederne conto a chi per questioni di età dovrebbe scalzarli, magari non battendoli sempre ma almeno qualche volta negli slam. Invece niente, anche questo 2018 ha riservato solo delusioni a chi sperava qualche colpaccio della rampante NextGen e il major newyorchese ancora in corso ha dato qualche ulteriore conferma sul valore effettivo di coloro che si sono affacciati da poco alla ribalta.
Lasciamo stare Kygios che perde abbastanza nettamente da Federer. Sappiamo che ormai l’australiano non è affidabile per via del suo poco impegno e voglia. Prendiamo però Sascha Zverev, quello più alto in classifica, il predestinato. Il tedesco ha vinto già qualche Masters 1000 ma finora quando il gioco si è fatto davvero duro, cioè nelle partite al meglio dei cinque set, si è sempre sciolto come neve al sole: ne abbiamo avuto una lampante dimostrazione qualche giorno fa nella sfida contro Kholschreiber, non esattamente un fulmine di guerra, con tutto il rispetto per un buon tennista come Philip. Tacciamo per amor di patria (tennistica) sulla mancanza di soluzioni condita da volè fantozziane (ma un ripasso dal fratello Mischa no?) e sulla sciagurataggine tattica di tirare spesso al rovescio dell’avversario, il colpo migliore di quest’ultimo: colui che è il più forte della brigata giovanile è andato letteralmente ai matti col connazionale che variava un po’ il gioco con back, attacchi in controtempo e slice. Zverev non ha trovato niente di meglio da fare che picchiare, picchiare e ancora picchiare; per finire inevitabilmente picchiato. Così come è accaduto al ventiduenne Khachanov di fronte al muro di Nadal.
E a proposito di Nadal è il momento di citare il giovane che più di tutti è al momento sulla bocca degli appassionati ed addetti ai lavori: Dominic Thiem, verso il quale, dopo l’intensissimo quarto di finale perso contro appunto il numero 1 del mondo, si sono manifestati unanimi entusiasmi. Entusiasmi forse eccessivi, dato che quel match era un match che Thiem doveva vincere: ha giocato bene, a tratti benissimo (come nel primo set), ma di fronte ad un Nadal sì grintoso e guerriero come al solito ma di certo non irresistibile, come dimostrano i 40 e più errori non provocati che sono un’enormità per un tennista come il maiorchino, l’austriaco tanto per cambiare non ha avuto la capacità mentale di gestire la situazione. E non stiamo parlando solo dell’osceno smash finale ma anche ad esempio di come ha perso il terzo set avanti di un break. Passi farsi mazzolare al Roland Garros ma non riuscire a battere un Nadal sottotono è meno perdonabile. E a chi ci contesta che Nadal è sempre lo stesso o addirittura più forte (qualcuno lo dice davvero) rispetto al 2008, 2010 0 2013, allora vuol dire che noi ci ricordiamo un altro Nadal.
E soprattutto a chi dice di essere pazienti con i nuovi arrivati, rispondiamo che di pazienza ne abbiamo avuta fin troppa, anche perché siamo già stati scottati dalla generazione precedente. Le stesse cose si dicevano dei tennisti nati nei primi anni novanta, i Raonic, Tomic, Dimitrov ecc. Ebbene, stiamo ancora aspettando uno straccio di slam: lasciando stare Tomic che pensa a contare i milioncini guadagnati immeritamente finora, non si può non rimarcare la delusione nei riguardi degli altri, i quali al limite un paio di volte hanno battuto i colossi nei tornei importanti e tra l’altro quando quest’ultimi erano messi davvero male, come Federer contro Raonic a Wimbledon un paio di anni fa in semifinale. Ricordate l’anno scorso Dimitrov all’ Australian Open? Il bulgaro giocò contro Nadal un match ancora più bello di quello di Thiem a New York; finì per perdere anche lui al quinto ma tutti pensavano che Grigor aveva finalmente compiuto il salto decisivo; Dimitrov per il momento ha vinto solo le ATP Finals, approfittando della mancanza o cattiva forma dei soliti tre (e quattro, se aggiungiamo Murray).
Abbiamo cominciato l’articolo con Safin. E a lui torniamo perché non solo a nostro avviso ha detto bene, ma a pronunciare quelle parole ne ha ben donde. Il russo non è stato un campione di continuità e spesso ha perso match che non doveva perdere ma in un aspetto decisivo ha compiuto il suo dovere: non ha avuto paura delle leggende del suo tempo, impartendo loro qualche lezione come nella memorabile finale dello Us Open 2000 quando Marat annientò niente di meno che Pete Sampras. La stessa cosa fece l’anno dopo Hewitt. Ecco, se c’è qualcosa di incredibile in negativo che è avvenuta negli anni ultimi è proprio questa: non aver assistito a finali memorabili tra il vecchio e il nuovo, non aver visto il nuovo prendersi la vetta, o almeno far tremare chi da troppo tempo ha lo scettro in mano, con l’esplosività, l’energia, la sana incoscienza che solo i ventenni possono avere. Questa nuova generazione probabilmente ce la farà ma solo perché la vecchia dovrà abdicare per forza di cose a causa del nemico più potente: il tempo, l’età che avanza. Ma è difficile negare che senza di questo, anche i vari Thiem, Zverev e compagnia farebbero la stessa fine della generazione che li ha preceduti: perché certo hanno avuto la sfortuna di scontrarsi con dei fuoriclasse assoluti ma anche perché, come dice Safin, non sono abbastanza forti. E ciò porta un po’ di amarezza.
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