“Unbreakable”: Jelena Dokic racconta le violenze subite dal padre

Frustata con la cintura, presa a sberle e a sputi in faccia. L’ex numero 4 del mondo, nella sua biografia in uscita in questi giorni, racconta nel dettaglio l’incubo vissuto a causa del padre Damir Dokic.

È l’anno delle biografie riguardanti giocatrici di tennis. Prima Agnieszka Radwanska, poi Maria Sharapova, infine, a partire dalla prossima settimana, l’ex tennista australiana Jelena Dokic. Se quella della russa, ancor più della polacca, è stata pubblicizzata e chiacchierata fino all’ultima virgola ma si riferiva perlopiù a vicende di campo, quella di Jelena rischia di avere un impatto molto più forte.

Le vicende della ex numero 4 del mondo sono note, con l’incubo di molestie continue subite dal padre Damir fin dall’età di 7 anni e durate fino a quando, a 19, non riuscì a trovare la forza per scappare di casa. Adesso sta per uscire il libro “Unbreakable” (“Indistruttibile”) scritto assieme alla giornalista del The Sunday Telegraph Jessica Halloran e le prime anticipazioni sono tutto quello che ci si potrebbe attendere da un titolo per lei così significativo: pagina dopo pagina, sono raccontati nel dettaglio tutti i maltrattamenti ricevuti.

Frustate con la fibbia della cintura, ceffoni, sputi in faccia e maltrattamenti verbali. L’elenco è sconfinato. “Mi picchiava, sempre, ogni volta sempre più forte” dice Dokic, “È cominciato un giorno, dopo un allenamento, e da lì in avanti è diventata una continua spirale senza controllo, con momenti sempre più gravi: una volta persi persino conoscenza”. Le frustate arrivavano spesso per un allenamento “mediocre”, una sconfitta, un periodo negativo. Spesso, oltre agli schiaffi veniva anche presa per i capelli, o per le orecchie, la sollevava da terra e le sputava in faccia o la prendeva a calci negli stinchi: “Capitava anche che dopo le violenze mi lasciasse per terra, sanguinante e con ferite ovunque”.

In quel periodo, racconta nel libro, ha pensato più e più volte al suicidio. “Mio padre mi chiamava spesso “puttana”. Non era solo uno strazio a livello fisico, ma vivevo malissimo anche a livello emotivo. Avevo pur sempre 11, 12 anni”. Nel 2000, a 17 anni, perse la semifinale a Wimbledon contro Lindsay Davenport: a causa di questo risultato, suo padre la lasciò al torneo da sola, impedendole poi di rientrare nella sua camera d’albergo per la notte: “Mio padre non era mai soddisfatto della persona che ero, né dei risultati che ottenevo (divenne numero 4 del mondo a 19 anni, nda)”.

Nel libro si fa riferimento ad uno dei più grandi rimpianti della sua vita: “L’aver lasciato che mio padre mi consigliasse di riprendere la cittadinanza Yugoslava”. L’episodio è avvenuto agli inizi del 2000, ma si ricollega ad atti di razzismo e bullismo che Jelena subiva fin da quando nel 1994 arrivò nella terra dei canguri. “Era un incubo anche solo andare ad allenarmi all’accademia. Un ragazzo del circuito junior mi ripeteva di tornare da dove ero venuta, un allenatore invece che se fosse stato per lui non mi avrebbe concesso alcuna wild-card. Eravamo dei rifugiati, in una condizione di estrema povertà”. Poi, nel 2001, la decisione di abbandonare l’Australia e tornare in Yugoslavia: “Se potessi tornare indietro, quella sarebbe stata una decisione che non avrei mai preso. Dopo qualche anno tornai in Australia, riuscendo a scappare da mio padre, ma ormai i danni erano fatti”. Al suo rientro in Australia, in un’intervista al Sydney Daily Telegraph, dichiarò: “Sono australiana, mi sento australiana, voglio tornare a giocare per l’Australia”. Cittadinanza che ebbe, poi, un anno dopo.

La reazione del padre, in quel periodo, fu che le violenze sulla figlia erano per il suo bene: “I miei genitori fecero lo stesso con me, per aiutarmi a crescere nel modo migliore possibile, ed è grazie a loro se oggi posso considerarmi un buon padre. Semmai io possa esser stato, qualche volta, un po’ violento, è stato solo per il suo bene”.

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