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12 Set 2017 11:07 - Extra
Us Open 2017, un torneo povero che non ci lascia nulla
Ci siamo lasciati alle spalle anche l’ultimo slam della stagione senza che niente cambiasse la direzione di questa stagione tornata nelle mani dei Nadal e dei Federer, che hanno finito per dividersi i major come ai tempi d’oro
di Davide Bencini
Alla fine ci siamo lasciati alle spalle anche l’ultimo slam della stagione senza che niente cambiasse la direzione di questa stagione tornata nelle mani dei Nadal e dei Federer, che hanno finito per dividersi i major come ai tempi d’oro. Peccato che, così come Parigi, così come Wimbledon, anche Flashing Meadows ci ha lasciato in dote un torneo alquanto povero di spunti e di spettacolo, salvato solo in parte da due cose: uno slam al femminile che ha fatto vedere una nuova generazione finalmente alla ribalta (per la felicità degli statunitensi) e Rafael Nadal, che da solo ha salvato un tabellone maschile nato sotto una pessima luce e finito peggio.
Partiamo come sempre dalle donzelle, che almeno hanno regalato partite incerte, sorprese e finalmente forse una visione chiara del tennis che verrà. Tutti aspettavano il ritorno di Maria Sharapova o la conferma di Pliskova per certificare quel numero uno finitole addosso quasi per caso. Invece, dopo la vittoria con strascichi polemici contro la Halep, Maria ha finito per sedare le voci malefiche facendosi battere in rimonta da una Sevastova che si è giocata le sue carte fino all’ultimo punto contro quella Sloane Stephens che ha poi proseguito il proprio cammino fino a vincere il suo primo slam. La Pliskova vedeva invece sfumare il sogno slam e la prima posizione mondiale sotto i colpi della Vandeweghe. Il rischio di diventare un’altra Miss Zeru Tituli alla Wozniacki resta altissimo… Abbiamo rivisto la Kvitova di un tempo, capace di fermare la corsa della nuova numero uno del mondo Muguruza, salvo poi cadere sotto i colpi di un’eterna Venus Williams. Ma soprattutto abbiamo assistito al ritorno in auge, anche se solo al femminile, del tennis statunitense, finalmente capace di non far sentire la mancanza di Serenona, che forse adesso potrà dedicarsi in toto alla sua nuova vita da neo mamma, certa di lasciare il trono in buone mani. Vandeweghe, Madison Keys, Venus e Stephens hanno completato un quadro semifinale mai visto che ha finito per rispecchiare quei valori che molti attendevano da tanto tempo. Erano secoli che una non testa di serie non vinceva uno slam (l’ultima fu la Clijsters, e solo perché temporaneamente ritirata); ma nessuna aveva vinto con una classifica così bassa. Il tutto inchiodando al muro nomi come Cibulkova, Goerges e la stessa Venus lungo la cavalcata.
L’unico peccato di questo torneo femminile è stata la finale: deludente, monocorde, tesa e a senso unico. Un po’ come quella maschile, dove, diciamoci la verità, si aspettava il fischio finale del torneo come in un match dove la Juve vince 5-0 al 50°.
Qui a mettere gli organizzatori nei guai ci aveva pensato fin dall’inizio Andy Murray. Come se non bastasse infatti che fossero assenti Djokovic, Wawrinka (campione uscente), Nishikori e Raonic, lo scozzese aveva la bella idea di ritirarsi a tabellone stilato, creando di fatto una parte bassa da fare invidia tutt’al più al torneo di Winston Salem. A mettere la ciliegina sulla torta a torneo in corso poi ci hanno pensato le così dette “nuove leve”, uscendo chi più e chi meno alla prima onda e confermando la regola che uno slam rispetto a un Master 1000 è ben altra cosa. Zverev fuori al secondo turno, Kyrgios addirittura al primo, Dimitrov eliminato dalla sorpresa Rublev, che arrivava fino ai quarti per poi prendersi un’ora e mezza di lezione di tennis da Nadal. I giovani d’oggi di slam proprio paiono non volerne sentir parlare, a differenza delle femminucce, con 3 vincitrici su 4 sotto i 24 anni nel 2017. Tra un po’ i vari balli tra vincitori e vincitrici slam sembreranno delle serate padri-figlie di questo passo…
Si è venuta a creare una parte bassa di tabellone maschile nella quale l’ha spuntata Anderson, abile a inserirsi nel vuoto lasciato da Zverev prima e da Cilic (ultima vera ombra di top10 in corsa) poi, senza poter fare nulla al cospetto del navigato Nadal, troppo più abituato ai palcoscenici delle finali slam.
Abbiamo visto risorgere per la duecentotrentottesima volta Del Potro (speriamo questa volta duri…), il quale con Thiem ha dato luogo forse all’unico match, almeno per pathos, da ricordare di questi US Open al maschile. Peccato per l’influenza (sempre una ne ha, poraccio) che lo ha debilitato nel corso del torneo, finendo per farlo arrivare al secondo set della semifinale contro Rafa senza più cartucce, altrimenti forse almeno lì avremmo assistito a una simbolica finale.
Al torneo poi è mancato un Federer all’altezza, là dove tutti aspettavano finalmente lo scontro con Nadal anche a New York. Tutta colpa, come già detto, di una programmazione, forse per la prima volta in carriera, spregiudicatamente sbagliata e di una schiena che in carico di preparazione ha fatto crack a Montreal.
Il torneo, alla luce dei tifosi e degli appassionati, è stato salvato solo da Nadal, che tra teste di serie che cadevano come stelle a San Lorenzo e avversari che si annullavano quasi da soli, ha saputo, lui unico tra tutti e rimasto solo come una particella di iodio, onorare il torneo da campione e sfruttare quell’occasione che ancora le “giovini leve” non riescono nemmeno a sfiorare. Il tabellone alla fine per lui sarà stato quello che era, ma cosa doveva fare, ritirarsi? Per quanto se ne possa discutere la manifesta inferiorità nel tennis non esiste. La cosa più incredibile della realtà tennistica che ci lascia in eredità questo quarto slam, e al tempo stesso più allucinante forse, è che questo “veterano” di 31 anni abbia più fame dei così detti “ragazzini terribili” della next generation, che di questo passo diventerà quella dopo e quella dopo ancora.