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22 Ago 2017 13:06 - Extra
Il recap dei tornei americani: sicuri che sia il 2017, vero?
Rafa è di nuovo numero uno, Nole e Muzza hanno ceduto il palcoscenico e Roger a casa con la bua alla schiena. Pensavamo di essere ancora nel 2007, invece ci siamo ritrovati nel 2013.
di Davide Bencini
Siamo sempre sicuri che sia il 2017 vero?
Oddio, magari i sorprendenti ma nemmeno troppo (a guardare le cose con la lente di ingrandimento) Master 1000 americani ci hanno regalato due sospiri di novità, fatto sta che vedendo le cose nella loro obbiettiva completezza sembra di essere di fronte a un nuovo scherzo del Dio tennis. Rafa è di nuovo numero uno, Nole e Muzza hanno ceduto il palcoscenico e Roger a casa con la bua alla schiena. Pensavamo di essere ancora nel 2007, invece ci siamo ritrovati nel 2013.
In soldoni questa sarebbe la situazione descritta in maniera concisa prima dell’ultimo slam stagionale.
Nel femminile invece regna il caos più totale, con le top player che fanno a gara a chi non vuole essere numero uno del mondo, nemmeno il posto fosse stato maledetto da Dinara Safina in persona.
Alla fine guardando il panorama attuale nel femminile, lasciando perdere le ormai assodate assenze di Serena e Maria Sharapova e una Azarenka che dopo la gravidanza sembra più uscita da una puntata Desperate Housewives, la Pliskova pare indirizzata a diventare un’altra numero 1 con “zeru tituli” (almeno di quelli che contano) mentre la Halep da tre mesi in qua butta occasioni al vento come la peggiore Nalba che si ricordi. Morale? A Toronto vince una Svitolina che in finale demolisce la Wozniacki (un’altra vincente nata…) e a Cincinnati risorge Garbine Muguruza, forse quella che più di tutte ora come ora il numero 1 se lo merita veramente. In ogni caso trovare una favorita in vista di New York è facile quanto incontrare un ciclope strabico…
I maschietti non è che vadano meglio, malgrado le vittorie di Zverev a Montreal e Dimitrov a Cincinnati possano sembrare delle boccate di aria giovane e fresca nel circuito. Condizionale d’obbligo. Perché?
Perché a memoria d’uomo non si ricorda un pre-Flushing Meadows dove mancassero a priori i numeri 1 e 2 del mondo e dove fossero presenti così pochi top 10. Con tutto il rispetto, i due Master 1000 americani hanno finito per assomigliare più a dei 250, con tanto di partite alquanto pessime giocate da una miriade di giocatori fuori forma. A Montreal Zverev, dopo aver vinto anche Washington, ha mostrato quello di cui sarebbe capace se solo riuscisse a trovare continuità. Peccato che in una finale che avrebbe potuto essere una sfida tra passato e futuro, il “passato” si è presentato sotto forma di “nonno-Federer”, quello del 2013 con la schiena incriccata, come detto più su. Molti si sono detti convinti che Zverev avrebbe vinto comunque, che finalmente il tedeschino è esploso e chi ne ha più ne metta. Chiaramente Sascha ha pensato bene di mettere in chiaro puntualmente le cose perdendo al secondo turno a Cincinnati contro Tiafoe, dichiarando in seguito di sentirsi “morto di fatica”. E buona pace a chi spera in un risultato migliore degli ottavi di finale che finora restano il suo miglior traguardo in uno slam…
A Cincinnati è arrivato invece il primo grande successo di Dimitrov. Anche qui fiumi di inchiostro si sono sprecati, ma occorre comunque tenere presente il percorso fatto dal bulgaro per arrivare alla vittoria: bye, F.López, i soliti resti da battaglia di Juan Martín Del Potro (ci sarebbe da scrivere un articolo solo sulle sconfitte post-vittoria su top 10 dell’argentino nella sua ennesima parte di carriera…), Sugita e Kyrgios in finale. Per quanto gli assenti abbiano sempre torto, non proprio l’Everest, ecco… È vero che finalmente Grigor ha dato prova di sostanza e concretezza, soprattutto contro Kyrgios in finale davanti all’unico vero ostacolo del torneo, ma prima di lasciarsi andare a facili entusiasmi occorrerebbe calibrare le cose nel loro contesto. La speranza è che sia un punto di partenza e non d’arrivo. Allora sì, potremmo scrivere che “tutto cominciò a Cincinnati, in un torneo che pochi volevano giocare…”
L’unico che abbia davvero convinto in Ohio è stato proprio lo sconfitto, Nick Kyrgios. Dato per disperso nei tornei precedenti, svogliato, quasi obbligato a giocare da non si sa quale divinità ostile e a detta di molti in preda a crisi di cuore che nemmeno in “Kiss me Licia”, l’australiano ha ritrovato il suo gioco di servizio e attacco e ha dato un segnale a tutti spazzando nel vero senso della parola via dal campo il futuro numero 1 Nadal nei quartie dando la sensazione di essere quello che a New York potrebbe riuscire a sorprendere tutti. Sempre che la testa regga…
Quello che forse alla fine da questi due tornei esce maggiormente con le ossa rotte (schiene a parte, ovvio!) è proprio il nuovo re, quel Rafa Nadal che, se lo conosciamo bene, avrà masticato un po’ amaro nel tornare in vetta al ranking senza vincere neanche un torneo dal Roland Garros; in particolar modo se si pensa che a Cincinnati giocava praticamente da solo. Invece torna al vertice battuto da un bambino in Canada e sbaragliato dal canguro malefico in Ohio. Ovvio che il tornare numero uno è il coronamento della sua clamorosa prima parte di stagione, ma di sicuro arrivarci con la consapevolezza del resto della ciurma in infermeria a suon di piazzamenti qua e là invece che di vittorie fa sempre il suo effetto.
In ogni caso non facciamo fatica a trovare proprio in Nadal il favorito numero 1 a New York. Fosse stato in piena salute, chiunque avrebbe detto che Federer avrebbe potuto vincere questo Open giocando seduto con un piatto di pasta davanti. Ma Federer non si sa ancora nemmeno se giocherà, e 3 su 5 resta sempre un altro sport rispetto ai Master 1000. Figuriamoci rispetto a quelli che sembrano 250…