Il caso di Sara Errani, che inevitabilmente e tragicomicamente passerà alla storia come il doping dei tortellini, ha riacceso l’attenzione sul rapporto fra il tennis e gli ‘aiutini’ proibiti che ha già conosciuto momenti topici (e tossici) con le confessioni di Andre Agassi nella sua autobiografia Open e la lungamente discussa squalifica di Maria Sharapova, altra ex n.1, incastrata nella bolla del Meldonium.
Ovvero due estremi del problema: il big che l’ha ‘passata liscia’ e la diva che, secondo molti, è stata usata come capro espiatorio per ridare una verginità ad uno sport tanto nobile quanto chiacchierato. Nelle discussioni da bar – oggi sarebbe meglio dire: da social – il tennis fa spesso la parte della disciplina protetta, quasi coccolata, recinto dorato nel quale in pochi vengono testati, pochissimi beccati con le mani sporche, e quei pochissimi se la cavano con pene minori. Le cifre parlano di una realtà un po’ diversa, soprattutto negli anni più recenti. Dal 2007 in poi i controlli sono diventati più numerosi, più seri. Nel 2015 sono stati 4451 (dati Wada), con un’incidenza di campioni fuorilegge dello 0,5, ma da quest’anno l’Itf, la Federazione internazionale, ne ha annunciati 8000, quasi il doppio, con un aumento anche dei fondi destinati all’antidoping (tanto invocato da Roger Federer, che vorrebbe controlli in tutti i tornei a livello di quarto di finale) per un cifra totale di 4,5 milioni di dollari. Si può fare di più, magari molto di più, ma è un passo avanti.
E l’esempio della Sharapova e della stessa Errani – due finaliste di Slam ed ex top-10 – è un segno che gli intoccabili non esistono più. Un capitolo diverso è quello della trasparenza, dove ancora c’è da lavorare. Non annunciare subito la positività di un atleta (perlomeno al momento delle controanalisi), ma comunicare reato e pena a processo già fatto, come è accaduto per la Errani, non aiuta il pubblico a evitare i sospetti di omertà, di copertura, di inciucio. Purtroppo il caso di Marin Cilic – a cui nel 2013 fu consentito di scontare una squalifica in silenzio, camuffandola dietro un infortunio – ha aumentato il livello di diffidenza e incredulità. Oggi il ‘silent ban’ in teoria non è più possibile, e vale la pena ricordare che anche nel tennis ci sono state punizioni esemplari per i recidivi (Mariano Puerta) o chi ha utilizzato doping pesanti (Wayne Odesnik), ma una normativa più chiara – e non solo nel tennis – limiterebbe il (lecito) sospetto che consuetudini delle federazioni, Tribunali Indipendenti e corti d’appello la giustizia si sfarini e proliferino circuiti paralleli, con leggi e regole proprie e pene diverse per infrazioni identiche. Alimentando così il Tribunale più pericoloso e insicuro di tutti: quello dell’Opinione e del Sentimento, per cui il campione simpatico gode in eterno del beneficio del dubbio, se non dell’impunità popolare, mentre quello chiacchierato e antipatico (vedi il neo-campione del mondo dei 100 metri Justin Gatlin) va condannato crocifisso a prescindere: su Twitter e allo stadio.
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