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28 Lug 2017 16:40 - Commenti
Djokovic, la fine di un tiranno
Ad un anno di distanza da Roger Federer anche Novak Djokovic ha deciso di prendersi una lunga pausa. La domanda è inevitabile: tornerà allo stesso modo?
di Roberto Salerno
C’eravamo già sbagliati una volta, quando un anno fa di questi tempi – ed era difficile non notare la coincidenza – Roger Federer diceva che si sarebbe fermato per sei mesi pronto a tornare in campo con le stesse motivazioni. Credere che lo svizzero potesse infilare un 2017 così era più un esercizio propiziatorio che un ragionamento e ci sarebbe anche da dire che nessuno si sarebbe aspettato una concorrenza così in disarmo al ritorno del Re. Può succedere la stessa cosa a Djokovic? Possiamo intonarne il de Profundis per essere poi clamorosamente smentiti proprio a Melbourne, dove più lunga è stata la tirannia di Novak Djokovic? Da un certo punto di vista Djokovic sembra addirittura messo meglio di Federer. Più giovane di cinque anni, reduce da una stagione certamente meno balorda del 2016 di Federer, con nessun problema fisico prima di questo fulmine del gomito. Ma le belle notizie per il serbo finiscono qui, perché a guardar bene il declino di Djokovic, uno che appena 14 mesi fa aveva il doppio dei punti del secondo del ranking, è stato terribilmente costante.
Si è detto che la similitudine più evidente è stata con la vicenda Wilander. Vinto lo US Open del 1988 dopo una lotta di quasi 5 ore contro Ivan Lendl, Wilander corse a Palermo a vincere il suo ultimo torneo vero (ne vincerà un altro quasi da ex), iniziò l’anno successivo da numero 1 del mondo e lo chiuse da numero 14. La caduta di Nole è stata meno fragorosa ma Wilander non aveva dominato il tennis come aveva fatto il serbo, aveva margini minori e perduta la maniacale attenzione – altra cosa in comune col Djokovic che fu – gli restarono poche armi per competere con gli Edberg e i Becker del tempo. E qui forse c’è l’ultimo motivo di speranza per Nole, visto che al rientro rischia di doversi confrontare non con ventenni che si avviano all’apice della carriera avendo già vinto degli slam ma con vecchietti che fai fatica a capire se siano più miracolosi o miracolati.
Ma questo è quello che verrà, quello che è stato è invece un lungo declino iniziato – e quando sennò? – proprio nel momento inseguito da una vita e raggiunto il 5 giugno del 2016. In quel momento il regno di Djokovic era persino più ampio di quello di Carlo V con tutti e 4 gli slam nelle sue mani, cosa mai riuscita neanche a quell’altro. Attorno a lui solo una selva di comprimari imploranti. Ma se Querrey sembrò un incidente dovuto alla sbornia, forse vanno rivisitate le lacrime che accompagnarono la sua uscita dal campo alle Olimpiadi. Forse la raggiunta consapevolezza che niente sarebbe stato più lo stesso anche se pochi giorni dopo la vittoria della Rogers Cup sembrava fatta per dire “sono qui”. Però a Toronto non c’erano gli altri, a partire da Murray che aveva iniziato la sua lunga rincorsa e finendo con i rivali di sempre, in pausa di riflessione. La vittoria senza perdere un set sembrò il segnale che in fondo il numero uno del mondo era sempre lui ma un mese dopo, nonostante la finale dello US Open raggiunta quasi senza giocare, si cominciavano a fare i conti del tempo che gli sarebbe rimasto prima di crollare. Djokovic però non è mai crollato, ed era solo il terrore dell’incredibile tiranno che fu il motivo per cui i risultati asiatici vennero interpretati come un segno del destino. Ma la paura di Djokovic era ancora viva persino a Bercy e a Londra quando era chiaro che RoboNole si era fermato a Parigi, consumato dall’incredibile tensione che aveva preceduto l’impresa e finalmente libero di trattare vittoria e sconfitta con ben altra rilassatezza.
Ma mentre il mondo gli spiegava che no, non poteva trattare le sconfitte come se fosse un Murray qualunque Djokovic era già altrove, nel mondo di tutti, dove la partita di tennis è un un pezzetto di vita, ma in cui c’è così tanto altro da far risultare quel pezzettino neanche troppo interessante. E l’estate australiana, il cemento nordamericano, il rosso europeo, erano nomi che al tiranno non interessavano più, il suo dominio era finito per noia più che per qualche intrigo di corte. Il ritorno del vecchio Re, dopo l’ascesa del secondo in linea di successione, lo trovava in un altrove fatto di considerazioni esistenziali più che di tennis.
Tornerà? Probabilmente no, così come non sarebbe dovuto tornare Federer. Troverà condizioni molto peggiori di quelle dello svizzero, perché i ragazzi saranno cresciuti e per un volta osserveremo il “raro verificarsi del previsto”. Perché probabilmente Novak Djokovic ha capito che il dispotismo è ingiusto per tutti. Principalmente per il despota, che è stato creato per cose migliori.