C’era un campo di periferia del Piemonte, Coppa Italia Under 14 tra circoli, uno dei due ragazzini serviva sotto 30-40 dopo aver vinto il primo set e sotto 5-4 nel secondo. Buona prima, per essere un dodicenne, l’avversario mise la racchetta e la palla andò a malapena oltre la rete con una parabola alta, il ragazzino corse, aprì il dritto e schiacciò: urlo liberatorio. Venti minuti dopo chiuse al tie break con un punto molto simile e, quasi fosse in finale a Parigi, prese la pallina che aveva in tasca e la scagliò verso il cielo. Si girò verso bordo campo, gli occhi brillanti colmi di orgoglio e incrociò quelli della sua maestra/allenatrice, una giovane ragazza che quel giorno aveva fatto più che altro da mamma ai due ragazzi che si giocavano il match a cinquanta chilometri dal loro circolo senza nessun altro accompagnatore. Si era divertita e batteva le mani al suo allievo come un coach nel box sul centrale di Wimbledon.
C’era Patrica Tarabini, argentina non molto conosciuta, sul centrale di Flushing Meadow, US Open 1991, in una notte di fine estate, a cercare di passare per due volte, a distanza di pochi minuti, la grande Martina Navratilova con un tweener. Sul primo Martina si distrasse, sul secondo appoggiò la volée con tranquillità. Sorriso a trentadue denti e cinque di intesa sulla rete, dove la Tarabini era arrivata preceduta dalla sua racchetta lanciata in segno di resa nell’estremo tentativo di recuperare la palla. Pubblico in piedi, applausi scroscianti, abbraccio finale tra le due avversarie.
Pochi giorni dopo, sullo stesso campo, Jimmy Connors, trentanove anni, salvava cinque smash di fila prima di vincere il punto con un passante di rovescio in corsa contro Aaron Krickstein e andare sotto le tribune ad arringare il pubblico come dopo un gol in finale ai mondiali.
C’era Boris Becker, e c’era Goran Ivanisevic, un sabato pomeriggio di novembre del 1992: Festhalle di Francoforte, ATP Finals, semifinale. Partita giocata tutta su uno, massimo due colpi. Il pubblico tedesco spingeva Boris al massimo: la domenica, il giorno della finale, era il suo compleanno. Il tedesco perse il primo set e il secondo seguiva i servizi senza dare possibilità al giocatore in risposta. Troppo forti alla battuta entrambi. 5-4 Becker e incredibilmente palla break. Goran piazzò la sua prima mancina a uscire ma il tedesco, al pari di un portiere, si buttò dalla parte giusta, polso bloccato sul rovescio, risposta lungo linea micidiale, all’incrocio delle righe. Imprendibile. Becker urlò “DA” e si baciò la mano destra, boato del pubblico. Quasi un’ora dopo tie break decisivo. Ivanisevic tremò, con un minibreak di vantaggio, come tante volte gli era successo nella sua carriera, su una volée bassa di dritto da giocare sotto la rete e la mise fuori di un soffio. Becker era una tigre, chiuse 9/7 e la braccia al cielo. La domenica sconfisse Courier in quattro set e la festa fu completa.
C’era lui, Roger Federer, ma soprattutto Marat Safin, in quell’infinita notte/mattina di fine gennaio 2005, semifinale Australian Open, a salvare match point nel tie break del quarto set con un pallonetto incredibile, scavando la palla negli ultimi tre centimetri prima del rimbalzo arrivando in corsa nei pressi della rete, dove Roger aveva appoggiato la palla quasi vincente con una volée in allungo. In quel momento si capì che Safin quella partita non l’avrebbe persa, anche se avrebbe vinto 9/7 al quinto, dopo altre mille emozioni da infarto.
C’era Andy Murray sul centrale di Wimbledon 2008, a recuperare due set a Richard Gasquet giocando un passante di rovescio quasi dalle tribune per aggiudicarsi il tie break del terzo e mandare tutti i britannici in visibilio.
Il libro dei ricordi si può aprire come fatto ora, a casaccio, saltando le pagine senza un ordine logico e anche nel caso resta una costante: il tennis, con quella sua capacità di emozionare in qualunque momento, in modi differenti, dagli occhi di un ragazzino che sogna quei campi che vede solo in televisione, al gesto tecnico del campione, all’abbraccio tra due avversari di differente valore ma carico di rispetto. Quelle citate sopra sono pagine famosissime, meno note, o sconosciute, ma in tutte è presente quell’Emozione che è il succo di questo sport. Si lotta a ogni punto e ogni punto o istante di un match può regalare un’improvvisa esplosione di sorpresa, che sia o non sia presente un campione con la C maiuscola in campo. È vero, molte di queste emozioni sono frutto delle giocate dei campioni, ma la loro essenza nel tennis stesso, nelle sue regole, scritte e fisiche.
Se si ama il tennis per questo, si ama guardarlo e si trova abbastanza inutile stabilire chi sia il “GOAT”. In tutti gli sport gran parte degli appassionati amano fare confronti, analizzare le statistiche, fare storiografia e la recente rinascita di Roger Federer rendeva scontato che il discorso sarebbe esploso nuovamente. Il tema ha accompagnato la carriera dello svizzero sin dalle sue prime grandi vittorie, prima con la domanda se sarebbe potuto diventarlo e poi se lo fosse. Come recentemente dimostrato, gran parte delle discussioni si riducono a mera congettura, e forse non ha neanche senso discuterne. Esiste però un terzo punto di vista che è quello che qui si sostiene: non interessa. Si riconosce l’immensa grandezza di Roger Federer e di tutti i grandi tennisti che hanno calcato i campi, ma si ama il tennis per le sue emozioni. Federer ne ha regalate tante, infinite, così come moltissimi altri giocatori, ma tra stabilire chi sia il GOAT o una pazza volée di Dustin Brown, si sceglie la volée. Si chiama EMOZIONE, appunto. Non ce ne vogliate.
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