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27 Apr 2017 00:45 - Extra
Gli incontri dimenticati: 1919, a Wimbledon nasce la Divina
Lenglen-Lambert-Chambers è una delle migliori finali mai giocate e viste nel tempio del tennis. In quel luglio di quasi un secolo fa una ventenne parigina conquista il suo primo Wimbledon e diventa una dea.
di Raffaello Esposito
Nella lunga storia dell’uomo ci sono eventi che vengono scelti come cardine di cambiamenti e svolte epocali. Ovviamente si tratta di semplificazioni spesso inesatte ma utili a segnare con certezza un punto di non ritorno. È questo il caso della scoperta dell’America, con il 1492 preso a riferimento per la fine del Medioevo quando questo era già tramontato da un secolo in molte aree d’Europa.
Nelle vicende minori dello sport si riesce a volte ad essere maggiormente precisi, aiutati certo dal fatto che spesso qui le rivoluzioni si incarnano in un atleta, una squadra o un’impresa ben identificabili. Insomma, c’è quasi sempre un quando e un dove.
Ecco perché conosciamo il momento esatto nel quale una esile ventenne parigina mise per la prima volta sulle mappe il tennis femminile. Il suo nome era Suzanne Rachel Flore Lenglen e da quel 5 luglio 1919 nessuno lo scorderà più.
In realtà nel micromondo di quel tennis antico, con la rara eccezione australiana chiuso fra le due sponde dell’Atlantico, vissuto all’interno di circoli esclusivi poco importa se a Nizza o Newport, girava voce da tempo di un giovane prodigio della racchetta. Si raccontava che venisse allenata dal padre con modi militari, che fosse capace di stare ore sul campo a colpire i fazzolettini preziosi che monsieur Charles disponeva sul campo. C’era persino chi giurava di averla vista per scommessa colpire quattro volte di fila una monetina da un franco collocata sulla riga di fondo. Era tutto vero.
Monsieur Lenglen, forse un antesignano di papà Williams, scelse il tennis come palcoscenico per la figlia e dall’età di otto anni la guidò con mano ferrea verso le vette dell’olimpo senza curarsi troppo dello stress nervoso al quale la sottoponeva. Per questo insicurezza e fragilità furono il solo limite di quella macchina perfetta, in grado di giocare un tennis maschile se non per potenza certamente come varietà, accuratezza dei colpi e regolarità. Ma sempre col terrore di sbagliare, di deludere papà.
Nel 1914 è già pronta quando appena quindicenne massacra 6-2 6-1 l’esperta e affermata Germaine Golding, di dodici anni maggiore, nella finale degli Hard Courts Championships di Parigi. Wimbledon l’attende ma il padre teme sia troppo presto e non la iscrive al torneo.
La Prima Guerra Mondiale le nega con buona certezza quattro anni di successi ma quando i Doherty Gates si riaprono ha solo vent’anni e lo scettro è ancora lì, basta varcare la Manica.
Suzanne deve attraversare il torneo All Comers sopravvivendo ad una serrata semifinale contro l’inglese Ryan prima di conquistare il diritto di sfidare la detentrice del titolo. Costei è Dorothea Douglass Lambert Chambers, quarantenne di Ealing già sette volte campionessa, chiamata ad essere l’estremo argine contro il nuovo che avanza impetuoso. La differenza di età sembrava già una sentenza ma in questi casi il Challenge Round consentiva alla più anziana di concentrare tutte le sue energie in un solo incontro mentre l’avversaria ne spendeva a quintali nelle sfide precedenti.
Sia come sia quel giorno d’estate sul Centre Court gli 8.000 spettatori, fra i quali il monarca Giorgio V, la famiglia reale e l’ammiraglio David Beatty, protagonista tre anni prima allo Jutland della più grande battaglia navale della Grande Guerra, vedono in campo il futuro.
È una smilza ragazzetta con gonna plissettata al ginocchio e una camiciola che lascia nude e libere di creare le braccia brunite. Non ci potrebbe essere contrasto maggiore con la sua avversaria, abbigliata secondo tradizione con corsetto serrato al collo. Papà Lenglen siede poco oltre il campo, le mani chiuse su un elegante ombrello e gli occhi fissi sulla figlia.
Per i grandi titoli bisogna vincere due volte, contro l’avversario e sé stessi. Suzanne serve per prima e impiega un game per pagare pegno all’emozione. In quel tremebondo esordio da incubo non vince un punto mentre l’avversaria è già perfettamente in assetto da combattimento. Dorothea è esponente di uno stile di gioco antiquato, portato però alla perfezione. Serve ancora dal basso ma il suo palleggio è potente e costante come le onde su una scogliera, della quale lei ha la stessa solida fermezza.
È una doccia fredda per la ragazza francese, utile a risvegliare i suoi istinti di caccia e dal secondo gioco in poi le cose cambiano. Lenglen inizia a dispiegare il suo infinito arsenale di soluzioni, smette di pensare e si lascia guidare dal duro condizionamento al quale il papà Charles l’ha sottoposta negli ultimi dieci anni. Il risultato è strabiliante. A quel tempo gli incontri fra donne si risolvevano invariabilmente in lunghi e lenti scambi dal fondo, in graziosa e paziente attesa dell’errore altrui. Ma le cose stavano cambiando e negli anni precedenti la statunitense Hazel Hotchkiss, maritata Wightman e donatrice dell’omonima coppa che diverrà la Davis femminile, stava mostrando che un tennis d’attacco e di conquista era possibile anche per il gentil sesso.
E quel che accade sul Centre Court ne è la prova ulteriore. Suzanne Lenglen chiude gli occhi, il prato più famoso del mondo scompare, al suo posto l’amato campo in terra rossa di Cannes. E comincia a colpire in maniera perfetta, con quell’anticipo naturale che fu in fondo il suo dono più prezioso. Dritti e rovesci profondi a spazzolare righe e angoli, poi quattro passi in campo e volée piazzate nel lato indifeso. Quando li riapre è avanti 4-1 sotto gli occhi di un pubblico attonito.
Come rammentò poi il giudice arbitro Burrow, “Nessuno di noi avrebbe mai potuto credere che una donna potesse giocare un tennis simile”. Ma non si vincono sette Wimbledon senza un carattere indomito e Lambert-Chambers ha l’esperienza per saper cosa fare durante una tempesta. Rimane in piedi poi riesce nel primo piccolo passo. Approfitta di un momento di eccessiva confidenza dell’avversaria, che attacca corto, per passarla ripetutamente a rete e recuperare il break di svantaggio. Suzanne si riprende in tempo per scappare avanti 5-3 e servizio ma l’altra è rientrata e non molla. Dorothea annulla un set point con la prima smorzata del match prima di pareggiare a cinque e strappare poi la battuta a Lenglen. Ha la sua occasione per chiudere il set, Suzanne però non gliene concede il tempo. Al terzo scambio segue a rete un dritto ben calibrato e incrocia la volée vincente. La sua insicurezza emerge in ripetuti battibecchi con la madre durante i cambi campo ma lo spirito battagliero le consente infine il break decisivo per il primo set, che termina con il chilometrico punteggio di 10-8.
Giunti a questo punto un copione stantio vedrebbe la vecchia campionessa crollare, questa però è una delle più grandi finali di Wimbledon mai giocate e i diciotto games che l’hanno aperta sono solo un leggero antipasto.
Forse schiacciata da ciò che tutti si attendono da lei, certamente provata dalla battaglia di nervi di un primo set che sembrava già vinto, Suzanne Lenglen crolla. La detentrice inglese naviga da tempo in quelle acque, entra nel secondo set a spron battuto e scappa veloce sul 4-1. Ed è a questo punto che la ragazzina francese mostra per la prima volta l’arte teatrale che, unita al suo tennis, la renderanno unica, Divina. Non sapremo mai se fu finzione, sta di fatto che Suzanne si esibisce in smorfie di dolore dopo ogni punto, ad ogni cambio campo.
Ad un certo punto si accascia lungamente sulla sedia del giudice di linea ed è la stessa sua avversaria a doverle intimare di riprendere il gioco. In quell’istante il padre si alza e lancia alla figlia una piccola fiasca, dalla quale lei beve avidamente alla pausa successiva. Si seppe dopo che conteneva una soluzione di cognac, zucchero e acqua. L’elisir le scioglie mente e braccio, risale d’impeto con tre giochi consecutivi ma appena prende fiato l’avversaria la infilza con l’affondo decisivo.
Sarà il terzo set a decidere quello che Arthur Wallys Myers definirà “The greatest Ladies’ Challenge Round in the History of lawn tennis”, e non deluderà.
È ancora Suzanne ad aprire le ostilità al servizio e nello strano gioco di simmetrie di questo match eccola scappare via sull’ennesimo illusorio 4-1 di giornata. Storia già vista con finale da scrivere. Il punteggio appare netto ma non è quello che si è visto sul campo. Gli scambi sono diventati interminabili, si combatte sempre fino ai vantaggi e in questa situazione basta poco. Douglass-Chambers mantiene il suo livello ormai da ore, non potrebbe mai raggiungere le vette artistiche dell’avversaria ma è in attesa dei suoi cali di rendimento. D’improvviso, ma non per la prima volta nella giornata, Lenglen molla la presa quanto basta perché l’avversaria le torni addosso. Smette di attaccare, di proporre lei il tema dello scambio con quelle doti sovrumane di anticipo e agilità, si limita a scambiare dal fondo, forse con un pizzico di superbia tutta francese nel voler finire l’avversaria sul suo terreno. E solo per un avventurato caso quella leggerezza non le risulta fatale.
La campionessa rimonta furiosamente, Suzanne non ha il tempo né riesce a rientrare negli schemi che l’avevano portata avanti e in un mare di errori e doppi falli si ritrova sotto 4-5 e poi 5-6. È questa l’ora del destino. Continuando a martellare la riga di fondo Dorothea Lambert Chambers scappa sul 40-15, due occasioni consecutive per il suo ottavo titolo.
Sulla prima capisce che non sarà lei a vincere. Lenglen affida la sua sorte al coraggio e si lancia a rete dietro a un profondo dritto incrociato nell’angolo, l’inglese se lo aspetta e risponde abilmente con un cross passante che ai più appare definitivo. E tale dovette sembrare anche a Suzanne, mentre si lanciava disperata verso la palla. Riesce ad intercettare il fendente solo con il legno della racchetta, quel tanto che basta a farla morire “like a wounded bird” al di là del nastro.
La seconda viene annullata da uno schioccante rovescio lungo linea e da lì in poi tutti sanno come finirà. Lenglen ora danza sul campo, rimanda ogni colpo senza fatica e ribalta lo scambio in un attimo. Il break decisivo se lo prende a zero nel sedicesimo gioco, prima di tuffarsi in lacrime fra le braccia di papà Charles.
La finale richiese 44 games, un record battuto solo nel 1970 da quella fra Margaret Court e Billie Jean King, degne eredi della Divina.
05/07/1919
Wimbledon, Londra – Finale
S. Lenglen b. D. Lambert-Chambers 10-8 4-6 9-7