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23 Feb 2017 20:13 - Extra
Oltreconfine: Bobby Fischer, il genio prima del campione
Con questa nuova rubrica mensile gettiamo lo sguardo oltre gli amati confini di un campo da tennis, verso le infinite storie che lo sport sa raccontare. Apriamo con la storia di un genio, il controverso scacchista statunitense Bobby Fischer
di Raffaello Esposito
In Islanda la sera di sabato primo luglio 1972 scende senza buio sul Teatro Nazionale di Reykjavik. Il sole tramonterà poco prima di mezzanotte, per sorgere nuovamente da lì a qualche ora. Nella sala dei ricevimenti la cerimonia di apertura del campionato mondiale di scacchi volge al termine, il pomeriggio seguente la prima apertura di pedone dovrebbe segnare l’inizio della serie per il titolo. Dovrebbe…
Il trentacinquenne di Leningrado Boris Vasil’evič Spasskij, il detentore, finge indifferenza. Un calice di vino nella destra, intrattiene amabilmente una dama senza sapere se l’indomani incrocerà lo sguardo del rivale.
La sua sottile inquietudine è la stessa degli invitati, una domanda comune tortura le menti senza affiorare alle labbra. È così per la delegazione sovietica, quella statunitense, e per le centinaia di giornalisti che da tutto il mondo hanno popolato l’isola del ghiaccio e del fuoco per raccontare l’attacco di un giovane genio al trono russo degli scacchi. Quel folle sbarbatello di Brooklyn, antipatico, maniacale, sospettoso ai limiti della paranoia ma sempre leale e brutalmente sincero, nel breve volgere di qualche anno ha spazzato via in un sol colpo tonnellate di polvere, ha squarciato il velo e mostrato al mondo la meraviglia e la crudeltà di un gioco che prima del suo avvento era considerata riserva esclusiva per pochi eletti, spesso senza tutte le rotelle a posto. Quell’anno invece è USA contro URSS ed ecco che una scacchiera campeggia stabilmente nelle aperture dei telegiornali e sulle prime pagine dei principali quotidiani, spartendosi l’attenzione con la guerra del Vietnam, le prime inquietanti rivelazioni sul Watergate e le Olimpiadi estive di Monaco.
Possibile che quell’uomo rinunci così all’obiettivo di una vita, al traguardo finale dopo un decennio di studio indefesso, alla corona che aveva sempre sognato e tenacemente inseguito? In quella fredda sera d’estate nessuno ancora lo sa.
Che fine aveva fatto Bobby Fischer? Per gli Stati Uniti sarebbe l’uomo giusto al posto giusto in quei primi anni settanta nei quali la Guerra Fredda rischiava di non esser più tale da un momento all’altro. Ma lui non sarà mai quell’uomo.
È un individualista e gioca solo per sé stesso. La diffidenza maturata negli anni verso il sistema statunitense è pari al disprezzo che nutre per quello sovietico e Bobby, con il tagliente candore che gli apparteneva, ebbe modo di manifestarla chiaramente nel corso di un’intervista a Radio Belgrado rilasciata tempo prima.
“Americans really don’t know much about chess, they only like winners. The US is not a cultural country. The people here want to be entertained. They don’t want any mental strain, and chess is a hig intellectual form. Americans want to plunck in front of a TV and not to have to open a book”
Da qui in poi la storia è nota. Il ritardo di qualche giorno, la telefonata di Kissinger, il rifiuto delle telecamere, il forfait nel secondo incontro. Poi il trionfo in quello che venne ribattezzato “Il Match del Secolo”.
Novello Cesare, Bobby venne, vide, vinse e se ne andò. Da solo.
Ma se voi chiedeste ad uno storico degli scacchi quale fu il vero match del secolo lui vi parlerebbe certamente di un altro incontro, disputato sedici anni prima a New York in una calda sera d’autunno, illuminata dal genio inconsapevole di quello stesso uomo allora ragazzino.
È una semplice storia di scacchi, il gioco dei re. Ma vale la pena raccontarla.
C’era una volta il principe indiano Kaid. Egli, dopo aver sconfitto valorosamente in battaglia tutti i nemici del regno precipitò nella noia. Più in là non si poteva conquistare niente e ormai gli mancava quel che spinge l’uomo all’azione, ovvero ciò che non si ha. In aiuto del disperato sovrano arriva il suo ministro Sassa, a sua volta figlio di re, che gli mette davanti una preziosa scacchiera istoriata e dispone i pezzi.
Una volta spiegate le regole del gioco sconfigge per quattro volte il re il quale, ben lungi dall’offendersi si appassiona alle infinite possibilità di quella guerra simulata ed entusiasta gli chiede quale ricompensa desideri per aver finalmente scacciato la noia dalla sua vita. Apparentemente umile il ministro colloca un diram d’argento nella prima casella della scacchiera e ne chiede due per la seconda, quattro per la terza e così via. Il re lo irride per la modestia della richiesta ma deve ricredersi quando il contabile di corte gli presenta la cifra risultante: 18 trilioni, 446 biliardi, 744 bilioni, 73 miliardi, 709 milioni, 55 mila, 615 diram.
Al mondo non c’era argento sufficiente. Sul finale della storia le fonti discordano. Secondo alcuni il re offre la corona a Sassa, secondo altri, compreso l’inganno, lo fa decapitare.
Fuor di leggenda, le ipotesi più accreditate fanno discendere gli scacchi dal gioco del Chatarunga, diffuso in India a partire dai primi secoli dell’era cristiana, ma rimangono per molti versi ancora incerte.
Trentadue pezzi variamente intagliati, re e regina protetti da alfieri, cavalli, torri e pedoni, l’eroica fanteria, che percorrono su diagonali e traverse un campo di battaglia quadrato composto da sessantaquattro caselle bianche e nere.
A volte, chiudendo gli occhi, si è precipitati all’indietro nel clangore dell’assedio di Gerusalemme, fra gli squilli di tromba della battaglia di Azincourt o sotto il sole di Austerlitz. È una guerra senza sangue ma pur sempre una guerra.
Come nella geometria, si parte da pochi postulati per costruire variabili pressoché infinite, non c’è spazio per il caso, per una gettata di dadi o per una mano sfortunata alle carte, vittoria e sconfitta sono decretate unicamente dal logico scontro di due menti. Ma non solo.
Allo stesso modo di tutte le cose perfette il gioco viaggia inalterato nei secoli, giunge in Europa sui carri di mercanti e carovanieri, attraversa le fredde sale dei castelli medievali, colpisce la fantasia di Dante che lo eterna in una famosa terzina del Paradiso:
“L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ’l numero loro
più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla”
(Par, XXVIII, vv 91-93)
Nel Settecento il Barone von Kempelen presentò ai suoi ospiti un “automa scacchistico” che aveva le sembianze di un turco, scommettendo grandi somme che nessuno sarebbe riuscito a sconfiggerlo. Solo dopo si scoprì che ospitava un nano al suo interno, evidentemente abilissimo giocatore. All’università di Princeton nel 1933 si disputa invece una partita geniale, se non nello svolgimento, certo nei contendenti. Con i bianchi gioca Albert Einstein, con i neri Robert Oppenheimer. Vincerà il primo, sfruttando uno svarione difensivo del padre della bomba atomica.
Le regole rimangono pressoché le stesse e vengono definitivamente codificate nel XVIII secolo, il semplice sistema di notazione poi consente ancora oggi di ammirare le grandi partite dei maestri del passato, in una linea ininterrotta che giunge fino ai giorni nostri. Un esperanto accessibile a tutti senza restrizioni, come la musica e la matematica. Poi accade che alcuni compongano sinfonie a cinque anni mentre altri si accontentino del giro di Do, ma il fascino degli scacchi non lascia mai indifferenti. Forse perché somigliano molto alla vita.
Dopo solo cinque mosse le variabili sono milioni ed il numero totale delle posizioni possibili supera quello degli atomi nell’universo. Si rasenta l’infinito, l’anelito dell’uomo, l’origine della filosofia.
Sono numeri spaventosi ma l’abilità matematica costituisce solo una delle armi a disposizione di un giocatore, e nemmeno la più importante.
“Riesco a visualizzare in anticipo una sola mossa alla volta, ma è sempre quella giusta“ soleva dire il grande campione cubano José Raúl Capablanca.
Come nelle previsioni meteorologiche, più in là si guarda e meno certezze si hanno. La vera abilità di uno scacchista risiede quasi sempre nella comprensione delle posizioni nelle tre fasi che caratterizzano lo svolgimento di una partita, apertura, medio gioco e finale. È per questo motivo che, come nella vera guerra, il coraggio, l’azzardo o la fantasia possono decidere le sorti di uno scontro equilibrato.
A metà Ottocento si diffusero i tornei nelle maggiori città di Europa e Stati Uniti. Non esiste ancora un’organizzazione o un campionato ufficiale, il valore dei contendenti è definito da scontri diretti che si svolgono in eleganti saloni frequentati da spettatori in giacca elegante e monocolo, dove gli stili si fronteggiano, affermandosi o soccombendo.
Due pilastri sorreggono la moderna concezione del gioco degli scacchi.
Il primo è un ricco giovanotto di New Orleans di nome Paul Morphy. Un solo anno, quello sabbatico fra il 1857 e il 1858 al termine degli studi in legge, gli è sufficiente per dare un impulso determinante allo sviluppo di tattiche e strategie. Ha solo ventuno anni quando attraversa l’oceano per sfidare i migliori campioni europei a casa loro. Sconfigge in modo irridente il fortissimo tedesco Andersen e chiunque gli si pari incontro, tanto che il miglior giocatore del tempo, l’inglese Staunton, si finge malato per evitare di incontrarlo. Il suo stile era incomprensibile a tutti, non attaccava subito come voleva la scuola romantica imperante. Lui consolidava prima di sferrare l’attacco, e quando si lanciava per chi gli stava di fronte era finita. Aveva un intuito innato per le posizioni e i suoi concetti vennero ripresi solo da lì a trent’anni.
Dopo l’impresa sbarca da eroe a New York e smette di giocare. Afflitto da forme sempre più acute di paranoia morirà per una sincope a 47 anni.
Il secondo è uno studioso. Wilhelm Steinitz nasce a Praga nel 1836 suddito dell’imperatore d’Austria Ungheria e muore cittadino statunitense nel 1900. Il suo contributo è fondamentale, a partire dal 1870 codificò in numerosissimi articoli le principali teorie su difesa, punti deboli e gioco strategico che gli valsero l’immortalità, più ancora del titolo mondiale conquistato nel 1866. Da quell’anno i campioni del mondo vengono considerati ufficiali e il gioco entra nell’epoca moderna attraverso le mosse e le innovazioni di nomi immortali. Il già citato Capablanca, bon vivant e tombeur de femmes che visitava il mondo come attaché diplomatico per il suo paese. L’imbattibile russo Alexandre Alekhine, freddo e antipatico ma talmente posseduto dal gioco da chiamare il suo gatto Scacco. Ma anche il polacco Akiba Rubinstein, così timido da effettuare la sua mossa per poi scappare in un angolo lontano della sala in attesa della risposta avversaria. Oppure il geniale lettone Aaron Nimzowitsch, il primo a teorizzare il controllo del centro scacchiera invece della sua occupazione con i pedoni. Il contributo che diede all’evoluzione del gioco fu pari alle bizzarrie del suo carattere. Un giorno del 1931 nel bel mezzo di una partita contro il forte Milan Vidmar chiede al giudice di intimare al suo avversario di non fumare. “Ma signore, il sigaro è spento” replica quello. “Lo so, ma minaccia di fumare e la minaccia è notoriamente più forte della sua esecuzione”, risponde lui.
Nel 1914 lo Zar Nicola II istituisce il titolo di Gran Maestro, assegnandolo ai cinque finalisti del torneo di San Pietroburgo, ovvero Lasker, Capablanca, Alekhine, Tarrasch e Marshall.
Dieci anni dopo nasce la FIDE (Federation Internationale Des Echeques) che provvederà da quel momento in poi ad organizzare ogni tre anni un torneo per designare lo sfidante del campione e a conferire il titolo vitalizio di Grande Maestro.
Dagli anni trenta e per quasi mezzo secolo una sola bandiera accomunerà i detentori del titolo. È rossa, con una falce, un martello e una stella gialli in alto a destra. L’architetto di questa occupazione totale è ben noto alla Storia con la esse maiuscola, si tratta di Vladimir Il’ič Ul’janov, meglio noto come Lenin. Praticante appassionato in prima persona, dopo il trionfo della Rivoluzione d’Ottobre è lui ad imporre gli scacchi come materia obbligatoria nelle scuole. I ragazzi più dotati frequentano poi La Casa dei Pionieri, dove in lunghe giornate di studio fruiscono dell’insegnamento dei migliori giocatori del paese. Il sistema è completamente sovvenzionato dallo stato in modo che questi possano dedicarsi solo a progredire. La mossa ha anche un alto valore politico perché avere un campione mondiale di scacchi russo è una gran carta da giocare sul tavolo della propaganda, utile ad asseverare la menzogna della superiorità culturale ed intellettuale del sistema sovietico sul corrotto Occidente.
Il risultato è sconvolgente, dal 1927 al 1972 il titolo di re degli scacchi sarà continuo appannaggio dell’orso russo. Negli anni sessanta i tornei di qualificazione erano un loro feudo pressoché esclusivo, tanto da ingenerare sospetti, denunciati dallo stesso Fischer e poi confermati, di combine e accordi fra i principali favoriti al fine di eliminare la concorrenza.
A partire dal 1951 i due contendenti per il titolo sono sempre sovietici, la finale si tiene logicamente a Mosca e lo spigoloso Michail Botvinnik fa la parte del leone con cinque titoli. Era detto il re della rivincita perché fu capace in ben due occasioni di sconfiggere chi gli aveva strappato il titolo. Fonderà una celebre scuola a Mosca, dalla quale usciranno Garry Kasparov, forse il migliore di sempre, e Vladimir Kramnik, l’ultimo zar in ordine di tempo.
Ma mentre tutto questo accade dall’altra parte del mondo è già nato quello che spezzerà di forza questa catena, con la stessa decisione usata da Alessandro Magno per troncare il nodo di Gordio.
Per solito un re nasce da una Regina e caso volle che proprio questo fosse il nome della madre di Bobby, una donna fuori dal comune. Nata in Svizzera da genitori ebrei nel 1913, crebbe cittadina statunitense a Saint Louis. Diplomatasi insegnante, si recò in Germania dal fratello, e qui conobbe Hermann Joseph Muller, premio Nobel nel 1946, che la spinse ad andare a Mosca per studiare medicina. Sotto le guglie multicolori della cattedrale di San Basilio si innamora del biofisico tedesco Hans-Gerhardt Fischer. La coppia convola a nozze nel 1933, cinque anni dopo nasce la primogenita Joan. Sono tempi bui, la politica antisemita di Stalin si fa sempre più minacciosa e la famiglia si trasferisce a Parigi, dove Regina lavora come insegnante. Parla fluentemente quattro lingue, diventeranno otto. Ma nella capitale francese se possibile la minaccia è anche peggiore. Lo stivale nazista rimbomba cupo in lontananza quando ancora una volta i Fischer raccolgono i loro pochi averi e il 23 gennaio 1939 varcano l’oceano alla volta del nuovo mondo. I guai però sono solo all’inizio. Gerhardt deve rifugiarsi a Santiago del Cile, è cittadino tedesco e non può entrare negli Stati Uniti. Lui e la moglie non si vedranno più. Forse…
Quando Regina arriva a Chicago è sola, ha ventisei anni, una figlia nata da poco e neanche un dollaro in tasca. La vita è durissima, vive dove trova lavoro, si sposta ai quattro angoli del paese sempre sulla soglia dell’estrema povertà ma trovando comunque il modo di tirare avanti e continuare nel contempo a studiare. Nel 1942 è a Denver, lavora in una fabbrica che produce incubatrici per polli e frequenta i corsi presso l’università cittadina. Li completa tutti, ottenendo diplomi in francese, tedesco, chimica e biologia. È una mente brillantissima ma pur sempre una giovane donna. E si innamora per la seconda volta. Lui proviene da una importante famiglia ebrea ungherese, si chiama Paul Felix Nemenyi ed è un matematico di talento con un dono particolare per la percezione delle relazioni spaziali. Un’abilità fondamentale per un giocatore di scacchi. Collaborerà al Progetto Manhattan per volere dello stesso Oppenheimer al fine di mettere a punto il meccanismo che innesca Little Boy, l’atomica che porrà fine alla guerra.
Paul è sposato, ma l’intesa con Regina è totale. I due condividono origini culturali, intelligenza e interessi. Concordano anche sul fatto che il sistema comunista sia superiore a quello occidentale. Entrambi sono attivi politicamente, lei ha vissuto a Mosca e ce n’è a sufficienza perché l’FBI dell’onnipotente J. Edgar Hoover apra un fascicolo su entrambi.
Per quasi un anno si amano segretamente ma quando Regina si sposta a Chicago ad inizio 1943 è ancora sola con la piccola Joanie. Ed è di nuovo in dolce attesa.
Bobby, all’anagrafe Robert James, nasce il 9 marzo 1943 al Michael Reese Hospital, una clinica per madri indigenti. Per un breve attimo Regina pensa di dare il figlio in adozione ma abbandona subito l’idea e registra Gerhardt all’anagrafe come padre del bambino. Non vuole che il piccolo venga bollato come un bastardo nato fuori dal matrimonio. In realtà lei non vede il marito da quattro anni ma quando Bobby comincia a diventare famoso si premurerà di raccontare di aver concepito il figlio a Città del Messico, nel corso di una fugace visita al marito. Ma basta confrontare una qualunque foto di Fischer e Nemenyi adulti per capire.
Nel 1949 dopo anni di nomadismo Regina si trasferisce definitivamente a New York, in un modesto appartamento da 45 dollari al mese sulla tredicesima strada est. L’ingresso del palazzo dà sul retro del famoso ristorante Luchow, ritrovo abituale dei migliori scacchisti della città. Un segno del destino.
Bobby è iperattivo, adora i giochi di enigmistica e in particolare i labirinti, che osserva intento per qualche secondo prima di posare la matita sul foglio e trovare infallibilmente il percorso corretto verso l’uscita.
Per tenerlo a freno la sorella Joan un giorno entra nel candy shop sotto casa, uno di quei tipici bazar newyorkesi dove si vendono riviste, giocattoli e dolcetti vari, e acquista per pochi centesimi una piccola scacchiera di cartone con i pezzi in plastica e il regolamento stampato sul retro della scatola. Bobby ha sei anni e si appassiona immediatamente alla nuova sfida. Lo affascinano soprattutto l’assenza di casualità di quel gioco antico, coglie immediatamente la logica sottesa al movimento di ogni pezzo, come se una scia luminosa gli mostrasse immediatamente la mossa migliore. In capo a qualche settimana quel bambino che sa leggere da poco batte regolarmente sia la sorella che la madre. Si arrabbia terribilmente, le accusa di non impegnarsi al massimo. Una colpa imperdonabile per lui.
Anni dopo in un intervista Bobby dichiarerà: “Non ho niente contro chi non pratica gli scacchi, quello che non sopporto sono i giocatori deboli”. E ancora, riferendosi alle donne scacchiste: “Loro sono scarse, tutte. Sono stupide se paragonate agli uomini, non dovrebbero giocare a scacchi. Sono come i principianti e perderebbero ogni singola partita contro un uomo. Non c’è una donna al mondo che non potrei battere dandole un cavallo di vantaggio”.
Inizia a giocare da solo.
Poi un giorno prende in prestito un libro, “Best games of chess”, del grande maestro tedesco Siegbert Tarrasch. Scopre di riuscire a comprendere immediatamente quelle complesse trascrizioni e ci si immerge come un umanista del XV secolo. Da quel momento passa giornate intere a ripercorrere le mosse dei migliori di sempre, la sua formazione teorica comincia così e il metodo di studio non cambierà mai.
Ore al tavolo per memorizzare migliaia di posizioni.
Negli anni della scalata al titolo mondiale i ritmi delle sue giornate si ripetevano sempre uguali. Sveglia verso le undici del mattino, un pasto leggero al ristorante, poi il pomeriggio al club di scacchi per giocare con qualche amico o analizzare situazioni complesse i gioco. Dopo cena a casa, studiando fino all’alba. Le immagini iniziali dello splendido documentario “Bobby Fischer against the world” di Liz Garbus ci danno un lampo di come doveva essere. Seduto ad un tavolino, i pezzi disposti in un determinato ordine, un libro nella mano e le dita dell’altra che corrono invisibili spostando alfieri torri e pedoni in rapida successione, gli occhi fissi sulle caselle, le labbra che si muovono in muta litania.
Nel 1950 la famiglia attraversa il ponte Giovanni da Verrazzano e si trasferisce a Brooklyn, al 560 di Lincoln Avenue. L’appartamento costa 52 dollari al mese ma ha due camere da letto ed è vicino alla scuola per infermiere che Regina sta frequentando. Bobby non è per niente felice del trasloco, è sempre irrequieto, va a letto tardi la notte e non ha nessun interesse per la scuola che frequenta. La scacchiera è la sua ossessione, la madre non ha tempo né trova il modo di limitarla. Persino mentre è nella vasca da bagno Bobby non smette di imparare l’arte segreta del gioco. Foto d’epoca lo ritraggono immerso fino alla gola nella schiuma con l’inseparabile scacchiera posata su uno sgabello e un cartone di latte accanto. “Quando usciva dall’acqua era cotto come una prugna” è il ricordo della madre.
Lei è preoccupata e con il suo perenne spirito di iniziativa scrive una lettera al redattore di scacchi del Brooklyn Eagle chiedendogli se conoscesse qualche ragazzino della stessa età “del mio piccolo miracolo” per giocare. L’uomo risponde invitandola a portare il figlio alla Grand Army Plaza, una biblioteca nel cui salone alcuni grandi campioni erano soliti disputare partite in simultanea contro appassionati volontari. Un giovedì di gennaio del 1950 un intimorito Bobby varca la soglia dell’edificio appeso alla mano della madre e prende posto al suo tavolo. Gli tocca Max Pavey, un fortissimo trentaduenne già campione di Scozia e dello stato di New York. Mentre quel bambino di sei anni gioca tranquillo e sicuro piano piano una piccola folla mista di curiosi e giocatori già sconfitti segue il match. Pavey impiega circa venti minuti per arrivare allo scacco matto, un tempo insolitamente lungo per quel genere di partite, ancor più considerando l’età di Bobby, che scoppia a piangere al momento della sconfitta.
Fra gli astanti il più interessato è un uomo sulla quarantina, rotondetto, mite e gentile. Si chiama Carmine Nigro, è il presidente del Brooklyn Chess Club ed è rimasto impressionato dall’accuratezza delle mosse di quel moccioso. Prende gentilmente Regina sotto braccio e le propone di portare il figlio al suo club ogni martedì e venerdì sera, non si dovrà preoccupare della quota di iscrizione. I primi tempi non sono incoraggianti, i soci si mostrano restii a sedersi al tavolo con un bambino di sette anni ma Carmine insiste, li spinge a giocare con lui e nel breve volgere di qualche settimana Bobby è ormai ufficialmente la mascotte del circolo. Soprattutto perché il suo amore per il gioco è sincero e totale, vince poco ma è duro da battere ed è capace di giocare per giornate intere. Quando non è al club è a casa, spesso da solo perché Regina e Joan rincasano in prima serata e invariabilmente lo trovano al tavolo della cucina, ignaro di ciò che gli accade intorno e completamente assorto nella comprensione dei misteri della difesa indiana o del gambetto di donna. Dopo cena il modesto appartamento è silenzioso, come tre saggi talmudici i Fischer studiano indefessamente. La madre con i suoi testi di medicina, la sorella con quelli scolastici e Bobby alle prese con una rivista scacchistica o con “My best games of chess” di Alexandre Alekhine. Non sono letture facili neanche per un uomo esperto e il fatto che quel ragazzo fosse in grado di assimilare concetti così complicati sfiora l’incredibile.
Quando qualche anno dopo l’arcano troverà spiegazione. Il QI di Robert James Fischer è 182, lo stesso di Albert Einstein, il genio per antonomasia.
Forse lui non ne ha ancora piena coscienza ma la lunga marcia che lo porterà su una fredda isola ai confini del circolo polare è già cominciata.
Nigro è un ottimo giocatore, un ottimo insegnante e per cinque anni incarna il padre che Bobby non ha mai avuto. Il sabato lo ospita a casa sua per tutto il giorno e ad ogni partita il ragazzo cresce in forza e convinzione. Giocano sul limite delle due ore, quello usato nelle competizioni internazionali. Quando Carmine si rende conto che Bobby impiega troppo tempo per le sue mosse lo porta a Washington Square Park, dove giocatori di ogni livello ed estrazione sociale passavano la giornata attorno a stinte scacchiere in pietra, rumoreggiando e coprendo di insulti lo scacchista che impiegava più di qualche secondo per rispondere ad una mossa. Bobby impara il pensiero veloce. Con l’andare del tempo Nigro non vince più una partita, e lo stesso accade agli altri membri del Brooklyn Chess Club, tutti giocatori esperti con quattro o cinque volte la sua età ed esperienza conseguente. Quel carismatico adolescente in pantaloni stinti e camicia a scacchi è diverso da tutti loro.
Lui vuole capire.
Lisa Lane, campionessa statunitense, usò queste parole nel 1962 per descrivere il dono di There’s never before been a chess player with such a thorough knowledge of the intricacies of the game and such an absolutely indomitable will to win. I think Bobby is the greatest player that ever livedBobby davanti ad una scacchiera: “”.
È quasi estate nel 1954 quando Fischer vede per la prima volta con i suoi occhi la montagna che dovrà scalare.
Si diffonde la notizia che la squadra sovietica di scacchi sarebbe sbarcata per la prima volta sul suolo americano per incontrare al Roosevelt Hotel una selezione dei migliori giocatori statunitensi. La vetusta metafora di Davide contro Golia non renderebbe minimamente l’idea della disparità esistente fra le due scuole, e stavolta una fionda non sarebbe bastata. Tutti i componenti della squadra ospite sono Grandi Maestri, le loro vittorie onorate con serate di gala al Bolshoi. L’unico statunitense a potersi fregiare di quel titolo era il quarantatreenne Samuel Reshevsky. Si racconta di un torneo giocato in Unione Sovietica che registrò più di settecentomila partecipanti e la federazione scacchistica di quel paese contava quattro milioni di membri.
Quella avversaria non superava i tremila.
Ignaro di tutto questo il 13 giugno di quell’anno l’undicenne Bobby varca la soglia del Roosevelt in compagnia di Nigro. È la prima volta in vita sua che entra in un albergo ma non è li per quello. Segue tutti gli incontri sulle otto scacchiere quasi senza sbattere le palpebre, vede il grande Bronstein chiedere un bicchiere di succo di limone prima di ogni match e i connazionali Reshevsky e Pavey con il terrore negli occhi. È un massacro. I sovietici si impongono con il punteggio di 20 a 12 ma la disfatta a stelle e strisce, lungi dal deprimerlo, esalta i suoi istinti di spietato cacciatore. Finalmente ha individuato la sua preda.
Ed inizia a correre.
Carmine Nigro non ha più nulla da insegnargli. L’anno dopo i due stanno passeggiando per la città quando Bobby si blocca davanti ad una discreta ed elegante targa di ottone sulla quale legge in bella grafia “Manhattan Chess Club”. Entra e chiede di giocare. Walter Shipman, all’epoca dei fatti fra i migliori venti scacchisti del paese, prevale a fatica contro di lui in una serie di partite veloci, al termine delle quali lo tempesta di domande.
“Quanti anni hai?” oppure “Dove hai imparato ad aprire in quel modo?”.
Pochi giorni dopo Bobby diventa il più giovane socio della storia del Club. Nel suo intimo accarezza la segreta speranza che un domani anche il suo ritratto sarà appeso alle imponenti pareti al fianco di leggende come Morphy, Capablanca e Lasker.
Sono i sogni di un dodicenne con la polo a righe, i denti perfetti che tormentano continuamente le unghie e la memoria di dieci elefanti. E che non lascia indifferenti le ragazze. Ecco il ricordo di una compagna di scuola:
“Bobby era un tipo originale, stava sempre da solo. Ma io lo trovavo molto sexy”.
Il suo nome? Barbra Streisand.
Come l’Albatro di Baudelaire, le sue ali da gigante sono d’impedimento in un esistenza comune, ma il mondo intero si accorge del momento esatto in cui Bobby le dispiega e si alza in volo. Nell’ottobre del 1956 il tredicenne Fischer è uno dei dodici scacchisti invitati a disputare il Rosenwald Memorial presso il prestigioso Marshall Chess Club. La sera di mercoledì 17 Bobby affronta un avversario formidabile. Donald Byrne era un brillante venticinquenne, insegnante al college e già campione statunitense. Ha la qualifica di Maestro Internazionale e il suo aplomb, sottolineato dalla sigaretta tenuta distrattamente fra le dita, stride col suo stile di gioco, intenso ed aggressivo. Sarà membro della squadra statunitense alle Olimpiadi Scacchistiche per tre volte e solo la salute malferma gli negò vette maggiori.
Nel turno precedente avava distrutto Reshevsky, l’unico Gran Maestro statunitense.
A Bobby toccano i neri. Ha studiato tutte le partite precedenti di Byrne e sa che è uno scacchista lineare. Decide di sorprenderlo e impostare la sfida su uno schema noto come “Difesa Gruenfeld”. Senza entrare in complessità, si tratta in sostanza di concedere il centro della scacchiera, la zona nevralgica, all’avversario cercando di rendere vulnerabili i suoi pezzi ad un futuro attacco. Si tratta di un approccio poco convenzionale, senza mosse preordinate. Bobby ha portato l’avversario in terra sconosciuta, distante dai suoi modelli abituali ma quello è un terreno minato anche per lui. Confida però nel suo intuito per le posizioni e la scelta rischiosa di quel genio “nato dalla testa di Zeus” è perfetta.
Il tempo scorre, la tensione sale, la folla intorno al tavolo si infittisce ogni minuto di più e parla con una sola voce “…da non credere! Donald sta perdendo con un ragazzino di tredici anni”.
Bobby ha esaurito le unghie e attacca il colletto della maglia. Sbuffa, si mette in ginocchio sulla sedia, tormenta i ciuffi ribelli. Le sue pupille intente, che abbandonano i pezzi solo per brevi fughe in bagno, dopo undici mosse cominciano a sorridere.
Come d’incanto si rende conto di essere in vantaggio, ma il difficile viene ora. Deve fare in fretta e non sbagliare, perché uno scacchista sa bene che la beffa della patta è sempre dietro l’angolo. E se…
Un’ idea assurda prende forma nei recessi della sua mente, mette radici, diventa magia. Decide di sacrificare la Donna, il pezzo più forte di tutti, la perdita del quale decreta nella maggior parte dei casi sconfitta sicura. Ma la via è quella, la vede chiara e distinta come gli accadeva con i labirinti della sua infanzia. Non esita a seguirla. Bobby offre la Donna, Byrne la mangia, un brusio si diffonde per la sala.
Errore o sacrificio?
La risposta non si fa attendere ed è tutta nelle veloci mosse al curaro che decimano i pezzi avversari, fino al momento in cui il ragazzino sposta la sua Torre mattando inesorabilmente il Re bianco.
Qualcuno urla di incredulità mentre da gran signore Donald Byrne si alza, sorride, stringe calorosamente la mano al suo vincitore ed entra nella storia del gioco.
La trascrizione di quelle mosse fa il giro del mondo, il coraggio, la creatività della soluzione e la perfezione con cui viene portata a termine lascia allibita la comunità scacchistica internazionale. E sfonda la Cortina di Ferro.
“Dopo aver studiato a fondo la partita mi convinsi che quel ragazzo era diabolicamente dotato e il nostro predominio in grave pericolo” commentò il Grande Maestro sovietico Juril Averbach. Il trono rosso delle sessantaquattro caselle stava già scricchiolando.
Solo questione di tempo.