L’anno è il 1956. Mentre un giovanotto sfrontato di Memphis a nome Elvis Aaron Presley canta con voce nuova “Heartbreak Hotel”, oltre l’Atlantico, nella città di Liverpool, Julia Lennon regala all’irrequieto figlio John la sua prima chitarra. Il mondo della musica sta per essere sconvolto.
Anche quello minore del tennis era da qualche anno preda di una rivoluzione. Una lontana giovane nazione si era impadronita del gioco, disarcionando i maestri inglesi e statunitensi. L’Australia era già stata messa sulle mappe dallo stregone Norman Brookes prima e Gerald Patterson poi, ma a partire dalla metà del secolo, sotto la ferrea guida di Harry Hopman, una generazione pressoché infinita di campioni si passerà di mano in mano lo scettro del comando. E se Frank Sedgman aveva aperto la strada, giungono subito dopo due adolescenti nati nel novembre 1934 a così pochi giorni e chilometri di distanza da instillare il fondato sospetto dell’ intervento divino. Le affinità fra Ken Rosewall e Lewis Hoad però si esauriscono qui. Li chiamavano “Whiz Kids”, i giovani stregoni, per come stupirono il tennis polveroso e manierato dei primi anni cinquanta.
Ken è figlio di un piccolo commerciante, impugna la racchetta all’età di tre anni e ha bisogno di entrambe le mani. È piccolino, scuro di capelli e resistente, un mancino naturale che il padre imposta da destro. Il fisico non lo aiuta e per questo motivo il giovane Ken incardina il suo tennis sulla tattica e l’accuratezza estrema nel piazzamento dei colpi. Regolare da fondocampo ma capace alla bisogna di coprire la rete alla grande, è passato alla storia per lo splendido rovescio tagliato, abbacinante nella sua nitidezza, “sempre capace di provocarmi un’ulcera”, come disse Rod Laver. Il suo gioco era come il suo nome, morbido, delicato e invitante in apparenza ma irto di spine acuminate se l’incauto avversario si avvicinava troppo. Forte e duro come il legno di eucalipto che abbonda in Oceania, Ken Rosewall percorre una carriera lunga tre decadi. Nel 1953 vince diciottenne il primo Slam in Australia, nel 1974 perde a quasi quarant’anni la finale di Wimbledon contro uno che potrebbe essere suo figlio, tale Jimmy Connors. Tre anni dopo è ancora fra i primi venti del mondo. Spero vi siate fatti un’idea…
Firmerà altri sette Major, fra cui il Roland Garros vinto due volte, 1953 e 1968, a quindici anni di distanza. In mezzo una lunga parentesi nel circuito oscurato dei professionisti, passata a guerreggiare una sera dopo l’altra su campi smontabili di legno o tela contro Kramer, Segura, Gonzales, Laver e lo stesso Hoad. Una sera dopo l’altra, una città dopo l’altra ma sempre lontano dalle luci della ribalta e dalle prime pagine dei giornali, perché così volevano i Soloni del tennis amatoriale. Ma erano loro i migliori. Quando nel 1968 nacque l’era Open un giornalista chiese a Ken se si sentisse cambiato dopo anni di professionismo. “Forse ho le tasche un poco più profonde” rispose lui con un furbo sorriso lieve.
Lewis Alan Hoad è all’opposto in tutto, eccetto che per la classe innata nel colpire una pallina di feltro. Alto, biondo e squadrato come la roccia di Uluru, Lew ricorda in alcune foto giovanili James Dean, passato istantaneamente dalla morte al mito nello schianto della sua porsche lungo un’assolata strada californiana pochi mesi prima della finale di Brisbane. Il giovane Hoad nuota, pratica boxe e rugby con un certo successo, la nobile arte gli scolpisce il fisico e gli insegna il coraggio. Polsi potenti e mani enormi fanno quasi scomparire la racchetta, che lui usa con il solo scopo di colpire vincenti anche quando palleggia contro il muro di casa. Il servizio non ha eguali e il suo gioco si modella naturalmente sull’esuberanza fisica. Non sarà mai un fine pensatore sul campo ma nei periodi sì, a detta di Pancho Gonzales, uno che qualcosa ne capiva, era probabilmente il più forte di tutti. Amava il gioco, non rifiutava mai una bevuta con gli amici tirando tardi la notte e si sposerà giovanissimo con la tennista Jennifer Staley, la compagna di una vita che gli darà tre figli.
Si racconta che negli anni sessanta l’attrice Lauren Bacall, vedova di Bogart e una delle donne più belle del mondo, avesse perso la testa per lui. Ma niente da fare. “Ci ho provato, credetemi, ma Lew aveva occhi solo per Jenny” raccontò con una punta di dispetto. Hoad danzerà poche estati, comunque sufficienti a vincere quattro Majors in singolo e otto in doppio, molti dei quali in coppia con Ken, e sfiorando il Grande Slam proprio nell’anno di grazia 1956. Un infortunio alla schiena mai completamente guarito limitò la sua carriera fra i professionisti e si ritirerà di fatto nel 1967. Fonda una scuola tennis al caldo sole della Spagna e lì vivrà felice circondato da ciò che amava di più. Nell’ordine la famiglia, una birra fresca al tramonto e la racchetta. Muore per un attacco di cuore il 3 luglio 1994, dopo che la leucemia ne aveva scavato il fisico possente.
Il 30 gennaio 1956 i due gemelli si incontrano nel mondo dei grandi. Rosewall è la prima testa di serie e il favorito. La storia dice che nei loro primi quattro o cinque incontri Lew non riuscì a vincere un singolo gioco anche se l’altro, come racconta nella sua biografia, “sembrava più piccolo della racchetta, persino i raccattapalle erano ben più grossi di lui”. Quando i due fanno il loro ingresso sul centrale in erba del Milton Courts di Brisbane, gli spalti traballanti sotto il peso di 6100 spettatori che traboccano orgoglio patrio, Ken è un campione affermato. Ha già vinto due volte in Australia ed una a Parigi mentre Lewis è alla sua prima finale importante. Ma quell’anno è il suo anno.
Lo Slam australiano si gioca in giorni che laggiù chiamano “centuries days”, perché la temperatura non scende mai sotto i 100° fahrenheit. Il lunedì della finale non smentisce questa fama. Hoad racconterà di aver passato la notte precedente pressoché insonne a causa di un guasto nell’impianto di condizionamento dell’albergo ma a giudicare dalla foga con la quale entra nel match la cosa non deve averlo infastidito molto. E c’è anche spazio per un attimo di suspense. Durante il palleggio di riscaldamento il responsabile del campo Tommy Deans è chinato a misurare l’altezza della rete quando un dritto piatto di Rosewall lo centra in pieno nell’occhio sinistro lasciandolo steso sul campo. Viene trasportato fuori a braccia e solo dopo qualche lungo minuto riesce a rialzarsi fra gli applausi del pubblico.
Rosewall apre al servizio e si accorge tardi di dover fronteggiare un uragano. Dalla Dunlop del suo avversario escono solo saette che si stampano sulle righe e gli lasciano una misera manciata di punti. In nove minuti è 4-0 per il biondo. Ken però è una delle più grandi menti tennistiche mai apparse e improvvisamente cambia il suo stile di gioco. Segue a rete il servizio chiudendo il campo e prende a palleggiare morbido e preciso, obbligando Hoad a spingere i colpi da solo. La ragnatela vischiosa comincia a funzionare, il motore di Lew va fuori giri e l’altro risale lento e inesorabile come il tempo. Rosewall lavora benissimo con la prima palla, tiene il servizio del 2-5 da 0-40 sotto e subito dopo si prende quello avverso.
Un altro turno tenuto facilmente e sul punteggio di 5-4 in suo favore Lew appare visibilmente scosso quando si appresta a servire. Non mette quasi mai la prima e solo faticosamente strappa all’ottavo set point il sudato 6-4 in un primo parziale che pochi minuti prima era sembrato una formalità.
Ora gli equilibri si sono assestati, Ken ha mancato di un soffio la rimonta ma adesso maneggia facile il gioco più potente del suo avversario. Spezza continuamente il ritmo dello scambio con micidiali attacchi in controtempo e quando è in difesa alza millimetrici lob. Uno di questi e un letale doppio fallo costano il break a Hoad nel quinto gioco. Tanto basta al Piccolo Maestro, il quale veleggia sereno fino alla chirurgica volée di dritto per il 6-3 che pareggia i conti. È in questo momento che Lewis Hoad mostra la tempra del campione. Invece di rimanere soffocato nelle spire della tattica di Rosewall, come troppo spesso era accaduto in passato, decide di accordare cieca fiducia al suo gioco ed entra un metro dentro il campo. Cerca sempre l’anticipo per rubare frazioni di secondo e il resto lo fa il suo magico braccio. Sovente sembra scomposto nella dinamica futurista dei suoi fendenti o la va o la spacca, la maglietta sempre fuori dai calzoncini. Ma certe sue cannonate quasi strappano la racchetta di mano all’avversario, incrinandone al contempo le certezze.
Rosewall ha la sfortuna di servire per secondo sia nel terzo che nel quarto set, decisamente i migliori dell’intero incontro, e alla fine la pressione di giocare sempre con la schiena sul precipizio lo schiaccia. In entrambe i parziali il punteggio segue i servizi fin quando Ken incappa in due turni storti. Sul 4-5 del terzo set perde uno scambio ravvicinato a rete, poi mette lungo di centimetri un rovescio in palleggio senza più riuscire a risalire dallo 0-30. Stessa sorte nel quarto, stavolta sul punteggio di 5-6. È ancora Rosewall a commettere subito due errori di misura, prima che Hoad alzi uno sbuffo di gesso bianco con un passante di dritto. L’orgoglio di un campione annulla i primi due match point. Sul terzo, forse il più facile, Murodirose segue a rete una prima angolata ma affonda incredibilmente in rete la facile volée consegnando la coppa all’amico.
In quella lontana primavera-estate il power tennis di Hoad sembrerà a tratti inarrestabile, Lew trionfa sia sulla terra di Parigi che a Londra, ancora contro Rosewall. Però Ken affonda la fredda coltellata della vendetta quando più fa male. Domenica 9 settembre 1956 a Forest Hills sfiora la perfezione tennistica e annichilisce l’amico e coetaneo per 4-6 6-2 6-3 6-3 negandogli il Grande Slam sul filo di lana. Uno smacco terribile, ma nulla che non potesse essere dimenticato con una pinta di rossa e una risata. Loro erano fatti così.
30/01/1956
Australian Championships, Brisbane – Finale
[2] L. Hoad b. [1] Ken Rosewall 6-4 3-6 6-4 7-5
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