di Salvatore Sodano C’era un ragazzo che come me… amava i Beatles il Rock&Roll… e il tennis? Forse, ma scavando nel fotocatalogo dei vip, a disposizione nella banca dati, di Morandi tennista non c’è traccia. Allora? Cosa c’entra Morandi con il tennis, a parte le circostanze che spesso lo hanno visto esibirsi negli stadi del […]
TENNIS – Di Luigi Ansaloni. Ringo Star che scrive “Yesterday”. La Cosa che riesce a conquistare la Donna Invisibile. Dani Pedrosa che conquista il mondiale in Moto Gp. Murray che finalmente diventa n.1 del mondo.
No, aspettate: l’ultima è successa. Poco fa, appena appena. Per davvero. La rivincita dell’eterno “Quarto”, la sensazione che il “Quarto” può diventare finalmente “Primo”. Anzi, uno. Da “Four” a “One”. L’unico, lassù, in cima. Come il numero che si mette (anzi, si metteva) nel musetto o nelle carene dei campioni del mondo delle due e delle quattro ruote. Finalmente, the Chosen ONE. Non il Prescelto, come Anakyn Skywalker o Lebron James, gente a cui è stato semplicemente donato tutto per diritto divino, ma uno che ha dovuto strappare via dalle mani di altri Prescelti il trono, a forza di provare e riprovare. Andy Murray è dunque il nuovo padrone del tennis mondiale. Il numero uno, il Re della classifica Atp. Era ora? Beh, sì.
E fa veramente “strano” ritrovarci qui ad inizio novembre a scrivere e a commentare quello che è appena successo a Bercy, ripensando a dove era Murray, a dove era Djokovic e a dove eravamo noi qualche mese fa. Non sono un appassionato di numeri, di statistiche e quant’altro, ma certe volte servono più delle sensazioni a spiegare lo sbalorditivo. In questo caso: dopo Parigi la classifica Atp (non la Race) recitava Djokovic 16950, Murray 8915. Più di ottomila punti di distacco. Il numero 1 del mondo aveva di vantaggio sul numero 2 quasi gli stessi punti che servivano al numero 2 per essere… numero 2 al mondo. Non stiamo parlando di ere geologiche fa, ma di metà giugno 2016. Quattro mesi fa. Incredibile, ma vero.
Poco più di 120 giorni che di fatto non solo hanno rivoluzionato la classifica (Federer fuori dai primi 10 dopo secoli, ma di questo ne parleremo in altre occasioni, Nadal quasi) ma anche la storia di quello che si credeva essere il futuro del tennis fino al 2018 o già di lì. Dopo Parigi tutti credevamo che il Grande Slam per Djokovic fosse solo una formalità, che il serbo fosse spedito come una Mercedes di F1 per battere qualsiasi tipo di record del tennis, che il dominio di Nole fosse destinato a durare per chissà ancora per quanto tempo, lassù. Centoventigiornidopo, siamo qui a raccontare la storia del crollo di un regno che sembrava non dover mai fine. E soprattutto, siamo qui ad onorare uno che il trono se lo merita, eccome se se lo merita, qualsiasi cosa abbia detto (o non abbia detto) la sua ex coach, Ameliè Mauresmo. Da quando Murray ha riabbracciato Lendl, di fatto ha sbagliato solo una partita, sanguinosissima: quella con Nishikori allo Us Open. Quel “gong” dovuto all’impianto audio, alle vibrazioni o altro gli ha fatto saltare i nervi. Per il resto, da Wimbledon ad oggi, è stato perfetto. Una perfezione “Murrayiana”, però. Alla scozzese.
Murray è il più umano dei numero uno da molto, molto, molto tempo a questa parte. Azzarderei a dire dai tempi di Hewitt, con ogni probabilità. Non ha l’aurea di Divinità che ha Federer, e d’altronde dello svizzero non possiede nemmeno il talento tennistico (fattore, questo, che accomuna Andy a tutti gli altri giocatori del circuito, per inciso). Non ha la brutalità fisica dei Nadal dei tempi migliori, quando spazzava via gli avversari del campo con i recuperi impossibili e con una resistenza disumana. Non ha la forza mentale di Djokovic, l’elasticità fisica del serbo, la sua capacità di dosare le energie per i momenti principali del match e anche del torneo, elevando improvvisamente il suo gioco, come fosse un robot, programmato per fare quello e solo quello, ovvero vincere.
È un campione, Murray, un grandissimo. Si è trovato ad essere il “Four” nell’epoca dei “Fantastic Four”. Fosse nato prima, o anche dopo, chissà. “Muzza” è uno che parla da solo in campo, insulta se stesso e il suo angolo, “smadonna” per ogni cosa, cade, si rialza, ciondola nel vero senso della parola. E’ sboccato, diretto ma non sgradevole. Eternamente spettinato, dice cose politically incorrect in continuazione, fa gaffe a raffica senza rendersene conto. Ha una madre con cui fa foto e selfie senza senso, come quello fatto a Roma dopo la vittoria in finale (contro Djokovic). In Australia gioca con la moglie Kim in procinto di sfornare un bebè, il suocero quasi gli muore in campo per un malore, e in tutto questo lui arriva in finale, perde e 2 ore dopo prende un’aereo diretto per tornare a casa, facendo tutto in fretta e in furia e in confusione. Praticamente, fa tutto come se fosse un essere umano con la testa perennemente in aria e che solo per caso, quasi per caso, è anche un campione con la racchetta in mano. Sarebbe, di fatto, un predestinato al culto del #mainagioia. Anche oggi, è diventato numero uno del mondo per un forfait avversario, senza avere la gioia (appunto) di diventarlo sul campo. Tipico di Muzza.
Fatto sta che adesso il più umano dei quattro, quello con più difetti, sia tennistici sia caratteriali, guarda tutti dall’alto verso il basso. Qualcuno dirà che due dei quattro sono fuori dai giochi, qualcuno troppo vecchietto, e che il terzo stia vivendo una crisi interiore del tutto evidente e vedibile, ma tant’è. Non si arriva a questo punto per caso. Mai. Dunque, Re Nole è morto. Evviva Nole. Viva Re Andy.