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14 Gen 2016 12:00 - Extra
Challenge Round. Lleyton Hewitt, il ritiro di un numero uno
di Fabrizio Fidecaro
TENNIS – DI FABRIZIO FIDECARO – Lleyton Hewitt giocherà agli Australian Open l’ultimo torneo in carriera. Il tennista di Adelaide è stato il più giovane numero uno di sempre, inserendosi al vertice tra le epoche Sampras-Agassi e Federer-Nadal. Il confronto con Roddick e altri sovrani Atp.
Ciao Melbourne, ciao tennis. La prossima settimana Lleyton Hewitt vivrà l’ultimo atto della sua carriera professionistica, disputando per la ventesima volta di seguito lo Slam di casa, gli Australian Open. Coetaneo di Roger Federer, il “canguro mannaro” ha conquistato alcuni tra i più importanti trofei del circuito ancor prima dell’elvetico, salvo poi venirne inesorabilmente scavalcato e distanziato in un’ipotetica graduatoria assoluta.
Lleyton fu lesto a infilarsi nel celebre “vuoto al vertice”, che avvenne mentre i principali alfieri della generazione precedente, Sampras e Agassi su tutti, erano ormai in fase calante e i nuovi fenomeni, a partire da Federer e Nadal, non ancora competitivi ai massimi livelli, per età o grado di maturazione. Però, ottanta settimane complessive in vetta al ranking Atp (di cui settantacinque consecutive) non si ottengono per caso, e lo stesso dicasi per due stagioni chiuse al numero uno.
Al di là del talento naturale, Hewitt si è dimostrato più valido rispetto agli altri giocatori che, per un mix di fortuna e abilità, si sono issati brevemente sul tetto del mondo tra il 1998 e il 2001: parliamo di Marcelo Rios, Carlos Moya, Yevgeny Kafelnikov, Patrick Rafter, Marat Safin e Gustavo Kuerten. Quest’ultimo è l’unico ad aver vinto più Major, tre contro due, ma vi riuscì esclusivamente sulla terra del Roland Garros e sulle altre superfici era decisamente inferiore a Lleyton. Il connazionale Rafter e i due russi, Kafelnikov e Safin, vantano due Slam ciascuno, ma non hanno mai avuto una continuità di rendimento paragonabile. Quanto a Moya e (soprattutto) Rios, be’, il divario è palese: lo spagnolo ha solo un trofeo parigino, mentre la bacheca Slam del cileno è tristemente vuota. E, anche in questi casi, la costanza ad alti livelli non è nemmeno comparabile. Lo stesso si può sostenere per Juan Carlos Ferrero, primo per otto settimane nel 2003.
Un raffronto più serio si potrebbe fare con Andy Roddick, un anno più giovane di Hewitt e, tra fine 2003 e inizio 2004, ultimo numero uno (per tredici settimane) prima del dominio della triade Federer-Nadal-Djokovic. Lleyton e A-Rod sono stati contemporanei: hanno vissuto, dunque, sulla loro pelle l’esplosione del fuoriclasse di Basilea e, a seguire, quella degli altri due assi. Lo statunitense si è fermato al titolo degli US Open 2003, così come l’australiano, dopo US Open 2001 e Wimbledon 2002, non ha più raccolto allori nei Big Four. Entrambi sono stati fortemente limitati soprattutto dall’avvento di Federer, migliore di loro ovunque e in particolare sui terreni dov’erano più competitivi, il duro e l’erba.
Nei confronti di Roddick, oltre a uno Slam in più, Hewitt può contare anche su due titoli al Master di fine anno (a zero) e altrettante Coppe Davis (a una), ma ha meno centri Master 1000 (due contro cinque), finali Major complessive (quattro a cinque) e titoli Atp (30 a 32). Potremmo parlare di una sostanziale parità (come negli head to head: 7-7), e di un’eventuale preferenza affidata al parere soggettivo. L’americano, però, non ha mai dato la reale idea di essere il più forte di tutti, al contrario di Lleyton, che a inizio millennio, da più giovane numero uno all time, fu gratificato di paragoni quanto mai lusinghieri, come quello con Bjorn Borg, che si azzardò a definirlo suo possibile erede (Matchpoint Tennis Magazine n. 8/2002).
Le stagioni seguenti non hanno confermato in pieno le straordinarie premesse, ma Hewitt, tra un infortunio e l’altro, è rimasto avversario scomodo per chiunque, con la sua grinta, le qualità tattiche e atletiche, la voglia di non mollare mai e di continuare a credere in se stesso, a dispetto dell’assenza di un vero colpo risolutivo. Lo ritroveremo presto sulla panchina del team australiano di Davis, ma in campo ci mancherà. E di certo non vedremo più nessuno urlare “C’mon!” con la stessa intima convinzione. Quella di chi ti fa sapere che, per raggiungere il traguardo che si è prefisso, non intende risparmiare la benché minima stilla di energia.