Grande Slam, storia di un'impresa (quasi) impossibile

TENNIS – Di Enzo Cherici 

Lo spunto è venuto da una data, una ricorrenza. Il 13 giugno 1915 – un secolo e due giorni fa – nasceva a Oakland (Califorinia) Don Budge, il primo tennista della storia a realizzare il Grande Slam.

Figlio d’uno scozzese e di un’irlandese d’America, quello che poi si rivelò uno dei primi fenomeni della storia del nostro sport, arrivò al tennis quasi per caso. Il padre, infatti, aveva puntato sul fratello Lloyd, di quattro anni più giovane. Lui non se ne fece affatto un cruccio, dal momento che la sua passione era un’altra: il baseball.

Fu proprio il fratello a notare per primo il suo talento e, tra una partitella e l’altra, lo fece iscrivere quasi per gioco ai campionati juniores della California del 1930. Che naturalmente vinse.

Nacque così il suo mito, che si trasformò in autentica leggenda otto anni dopo. Dopo un grande 1937, con vittorie a ripetizione, si mise in testa per l’anno successivo di vincere tutti e quattro i tornei più importanti in una volta sola. Detto, fatto. In Australia, nonostante il mal di gola che l’afflisse per tutto il torneo, battè Bromwich in finale. A Parigi si sbarazzò del ceco Menzel nel match decisivo. A Wimbledon trionfò senza perdere un set, umiliando in finale Bunny Austin. All’ultimo atto dello Us Open, concesse un set in finale al suo compagno di doppio Gene Mako. Il Grande Slam era finalmente servito. Nei quattro tornei perse in totale la miseria di cinque set!

Gentleman Jack – Ma il mito del Grande Slam non era nato con Budge, ma addirittura cinque anni prima, nel 1933. Successe infatti che Jack Crawford, un australiano dai modi gentili, vinse in Australia, Parigi e Wimbledon. I tre tornei più importanti dell’anno, tutti in colpo solo. Mancava la ciliegina, lo Us Open che si giocava all’epoca a Forest Hills. In finale, ad attenderlo, Fred Perry, la sua nemesi. Come ricorda Stefano Semeraro nel suo immortale Centre Court – Il tennis dei pionieri, la mattina del big match, Jon Kieran sul New York Times, proprio pensando alle tre grandi vittorie ottenute da Crawford nei mesi precedenti, scrisse: “Se Crawford oggi vincerà, avrà realizzato su un campo da tennis l’equivalente di un Grande Slam, in zona e contrato”. La formula che definisce, nel bridge, il massimo punteggio possibile.

Crawford giunse all’intervallo del terzo set (all’epoca funzionava così) avanti due set a uno. Perry rientrò a rilassarsi negli spogliatoi, lui rimase a consumarsi nell’attesa in campo. Racimolò un game negli ultimi due set, sconfitto dalla tensione e – narra la leggenda – da qualche dose di brandy di troppo che aveva utilizzato per allungare il suo tè. Il giorno dopo, ancora sul New York Times, Allison Danzig scrisse che “il sogno di Crawford di realizzare il Grande Slam era svanito”. Era nata la leggenda del Grande Slam.

Un Razzo al potere – Dopo Crawford e, soprattutto, Budge, lo Slam era diventato ormai il mito, la leggenda inseguita da tutti i più forti tennisti. C’hanno provato in tanti in quegli anni caratterizzati dalla doppia categoria, dilettanti e professionisti. Poi, 24 anni dopo Budge, è arrivato un tipo che ha messo d’accordo tutti. Sul campo volava, un razzo. The Rocket, lo avevano infatti soprannominato. E oltre a volare, aveva colpi mancini che i suoi avversari potevano soltanto sognare di possedere. Rod Laver era l’uomo dai colpi impossibili. Il primo ad aver sviluppato un colpo assolutamente rivoluzionario per il tennis (e le racchette) di allora: il lob liftato di rovescio. The Rocket realizzò il suo primo Grande Slam nel 1962, da dilettante. Quell’anno, superò Emerson a Sidney, dove si disputavano allora gli Open d’Australia. A Parigi poi, nei quarti, dovette addirittura annullare un matchpoint a Martin Mulligan. In finale fu ancora Emerson la sua vittima. A Wimbledon schiantò, stavolta in finale, Mulligan, lasciandogli la miseria di cinque game. A Forest Hills, dove giunse teso come una corda di violino, lasciò per strada tre set in tutto il torneo, ma riuscì infine a trionfare battendo ancora una volta in finale il solito Emerson.

Dopo la parentesi d’un lustro (1963-1967) tra i professionisti, col tennis finalmente Open ci riprovò. E, naturalmente, ci riuscì. Nel 1969 il Razzo aveva ormai 30 anni e dolori sparsi ormai su tutto il corpo. Un problema al polso sinistro gli aveva provocato un fastidiosissimo risentimento fino al gomito. Ma in quegli anni Rod il Rosso era più forte di tutti e di tutto, anche del dolore. In Australia, dopo una maratona contro Tony Roche in semifinale (7-5, 22-20, 9-11, 1-6, 6-3), dominò lo spagnolo Gimeno in finale. A Parigi, dopo essersi trovato sotto di due set contro l’americano Dick Crealy al secondo turno, superò in finale il defending campion, Ken Rosewall. A Wimbledon altra rimontona epica contro l’indiano Lall al secondo turno: da due set sotto, infilò 15 giochi consecutivi e tanti saluti. In finale sconfisse l’ultimo vincitore tra i dilettanti, il connazionale John Newcombe. Mancava l’ultimo tassello, lo Us Open. Quell’anno a Forest Hills la pioggia la fece da padrona, condizionando pesantemente il gioco. La finale venne spostata al lunedì e fu in qualche modo decisa…da un paio di scarpe. Sull’erba umida Roche scivolava in continuazione. Laver, dopo il primo set perso osò indossare le Spikes, le scarpe chiodate. L’azzardo riuscì. Vinse in quattro set e, unico nella storia, bissò il Grande Slam del 1962. Uno vinto da dilettante, uno da professionista. L’erede lo stiamo ancora aspettando.

Impresa impossibile? – Sono passati 46 anni dall’ultimo Grande Slam di Laver. Periodicamente si pensa, si scrive, che qualcuno è pronto a replicare la sua impresa. Puntualmente quel qualcuno viene smentito.

Quest’anno sembrava dovesse essere l’anno buono. Djokovic stava letteralmente dominando la stagione, una superiorità che a molti era sembrata addirittura imbarazzante. Dopo la vittoria in Australia, a Parigi aveva sconfitto l’avversario da tutti giudicato il più insidioso. Quel Nadal che lo aveva già respinto sei volte in terra di Francia. Niente da fare neanche questa volta. La Storia, prima ancora di Wawrinka, aveva altri programmi.

E d’altra parte, ci sarà un motivo se nella storia del tennis quest’impresa è riuscita soltanto a due uomini (Budge e Laver appunto) e tre donne (Maureen Connolly 1953, Margareth Court 1970 e Steffi Graf 1988).

Neanche un certo Roger Federer, per dire, è riuscito neanche ad assaporare il gusto dell’impresa. Perché pur avendo per ben tre volte realizzato ¾ di Slam (2004, 2006 e 2007) è sempre stato respinto a Parigi, ben prima dell’appuntamento finale dello Us Open. E anche nelle occasioni in cui ha disputato le finali del Roland Garros (2006 e 2007), non ha mai dato l’impressione di potercela fare contro la sua nemesi, Rafa Nadal.

Chi avrebbe invece potuto farcela fu John McEnroe, nel suo magico 1984. Vero, perse subito a Parigi (che all’epoca era ancora il primo Slam dell’anno), ma col senno di poi quella finale smarrita contro Lendl da due set avanti avrebbe davvero potuto significare il Grand Slam, dal momento che poi dominò Connors a Wimbledon e lo stesso Lendl a New York.

Ma quello che forse più di tutti andò vicino al Grande Slam dopo Laver fu Bjorn Borg. L’Orso svedese per tre anni consecutivi (1978-1980) fece la doppietta Parigi-Wimbledon, aggiudicandosi quindi i primi due Slam dell’anno. Sempre bocciato allo Us Open, fu nel 1980, il suo anno migliore, che ebbe la sua vera chance. Dopo la leggendaria vittoria contro McEnroe a Wimbledon, l’americano lo aspettava a Flushing Meadows per prendersi la sua rivincita. Supermac vinse i primi due set, ma lentamente Borg prese le misure allo scatenato avversario. Vinse i successivi due set e portò la finale al quinto set. Qui, complici un paio di chiamate assassine da parte di giudici forse troppo casalinghi, perse 6-4 il s
et decisivo e dovette dire addio ai sogni di gloria. Forse con Hawk Eye in funzione già da allora, avremmo già avuto il successore di Rod Laver.

 

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