Quale forma ha l’acqua? In verità l’acqua prende la forma che le viene data, perché si sostiene che non ne abbia davvero una tutta sua. Proprio come un liquido, incapace di acquisire una sola forma, il tennis di Jannik Sinner fluisce, si adegua a ogni foggia o situazione. Scorre inesorabile ignorando gli ostacoli e procede […]
Scrivere di Senna in questi giorni, in queste ore, è un po’ come pretendere di piazzare il carro davanti ai buoi. In realtà, è lui che ci ha scritti tutti, in un certo senso. Se c’è qualcuno nella storia degli sport a motori che ha saputo annusare, sbandierare, accarezzare e insomma scovare sul serio la (e le) società del nostro tempo, al di fuori dei circuiti, dell’odore dell’olio da motori e delle gomme, quello è stato lui. Con i guantoni e con gli occhi lo aveva fatto prima di lui Mohammed Alì, che ha stanato presto i nostri stomaci, le periferie delle emozioni e degli animi, in una lucida ed ebbra autopsia dell’essere e della metamorfosi di quegli anni. Lo ha fatto anche, in un modo forse meno affascinante ma certamente più incendiario, Diego Armando Maradona: cifra diversa, qualità meno lucida, ma prorompente nella sua forza illuminante, che ha dato una voce agli invisibili, enucleato le nostre minime e siderali meccaniche di senso, genio, affetto e nevrosi. Tutto questo, dando calci ad un pallone. Senna ha fatto tutto questo e anche di più: un pilota fondamentalmente anarchico dallo sguardo perennemente triste e pensieroso divenuto da uomo a pilota, da pilota a leggenda, da leggenda a divinità.
Chi ha vissuto Ayrton Senna Da Silvia, chi più chi meno, sa il perché se ne parli ancora dopo vent’anni. Non potrebbe essere altrimenti, tanto che a distanza di tanto tempo sembra quasi naturale farlo, scontato. Senna ha rappresentato in un certo senso tutti quelli che hanno avuto il privilegio di vedere quel casco giallo-nero su una macchina di Formula Uno, che lo hanno visto vincere e vincere ancora, e poi infine andarsene via in una curva, il 1 maggio del 1994 a Imola. Ayrton era l’incarnazione vivente di quello che ognuno di noi vorrebbe essere almeno una volta, un giorno, nella vita, nel bene e nel male. Un genio in quello che faceva, bello, adorato (e anche odiato) dalle donne e dagli uomini, un affabulatore, affascinante quando parlava al pubblico, ai giornalisti, una sorta di divinità dentro e fuori dalla vettura. Ma anche umano, umanissimo, perfino troppo: rancoroso, cattivo, non ci ha pensato due volte a rischiare la propria vita a Suzuka, nel 1990, per rendere pan per focaccia a Prost, buttandolo fuori a 300 orari alla prima curva del gran premio del Giappone, proprio come aveva fatto il francese con lui dodici mesi prima. E non c’entrava il campionato, il mondiale, la gloria, i soldi. Semplicemente, come scrive Leo Turrini nel suo libro ricordo, uscito poco tempo fa, il Dio di Ayrton, che lui amava e venerava, era quello dell’antico Testamento. Occhio per occhio, dente per dente.
Ci sono stati piloti grandiosi, eccezionali, ma gli è sempre mancato qualcosa, per ergersi al livello di divinità assunta dal brasiliano non solo dopo la sua morte, ma anche prima. Schumacher, ad esempio, in pista probabilmente è stato tanto grande quanto Senna, ha anche vinto (molto) di più, ma la sua grandezza finiva lì. Quando il paddock smontava baracca e burattini, Michael, la sua immensa luce, si spegneva. E’ rimasto, prima e dopo, “solo” un pilota incredibile, uno spietato cannibale. Adesso è in una camera d’ospedale, che non si sa come sta. Anche Prost, la nemesi di Senna, è ricordato più per lo scontro epico con il brasiliano, più che per la persona o per il grandioso pilota che è stato il transalpino. Forse Gilles Villeneuve, che ha vinto quasi niente di formula uno, ha assunto negli anni dei contorni da leggenda per quello che ha saputo rappresentare anche fuori dai circuiti, ma Gilles era troppo “folle” e istintivo, per rappresentare al meglio una generazione, la sua, e anche quelle future, in un certo senso. Senna era uno sciamano. Era grande fuori quanto lo era dentro la sua macchina. Ha saputo, e in un certo senso continua a fare, anche a vent’anni dalla sua scomparsa, rappresentare alla perfezioni il sogno di tutti noi. Non solo pilota, ma divinità. Lui lo sapeva, e ci giocava sopra questo. Immaginava di vedere Dio sopra il suo casco, spiegava che era andato a sbattere perché ad un certo punto, con un minuto e mezzo di vantaggio sul secondo, non si sentiva più lui, non capiva più come e perché stava guidando. Mistico, quasi visionario. Anzi, senza quasi. Senna era uno che dopo la fine della stagione fuggiva in Brasile per tre mesi e mezzo (lo aveva scritto nel contratto) per stare con amici e parenti nella sua tenuta ad Angra Do Reis, la sua tana segreta, dove staccava con il resto del mondo. Poi, a fine febbraio, tornava e provava la sua nuova macchina, giusto 2 o 3 volte, il tempo per capire, mentre tutti i suoi colleghi avevano già macinato migliaia e migliaia di chilometri nel frattempo. Lui, non ne aveva bisogno. Prost, dopo la morte di Ayrton, disse: “Non sapeva mettere la macchina a posto e non perdeva molto tempo a farlo, ma quando il mezzo lo assecondava, era semplicemente imbattibile”. Non che Senna non fosse un perfezionista: passava ore e ore in pista, con i meccanici, ma la sua vera unicità era la guida, la purezza dello stile, la sensibilità. Era capace di passare per 70 volte nello stesso identico punto durante un giro veloce, specialità nella quale era ed è assolutamente inarrivabile. Come lo era sulla pioggia: Donington 93, con 7 sorpassi al primo giro sotto la pioggia, è la gemma più stupefacente della storia dei Gran Premi.
Senna ha rappresentato per chi scrive il suo primo incontro vero con il significato della morte. Curioso, per chi poi ne avrebbe fatto quasi una professione, quella di incontrare la signora con la falce praticamente ogni giorno. Chi c’era, quel 1 maggio, ricorda ogni attimo di quel giorno. Anche, soprattutto, a distanza di vent’anni. Il mio attimo è la dichiarazione di morte cerebrale, la fine di ogni speranza, quella “Nessuna possibilità di salvarlo” che ancora oggi, giuro, risuona nelle orecchie. Per questo, forse (anzi sicuramente) inutilmente, sono qui a ricordarlo su un sito di tennis, che niente ha a che vedere con le due ruote.
C’è stato un Senna, nel tennis? Nel calcio c’è stato, in Italia, uno come Roberto Baggio: ugualmente grande e geniale nel suo sport, con quella dose di fascino mistico che alla fine ha contagiato tutto e tutti, al di là di ogni possibile bandiera e tifo. Anche Diego Armando Maradona: lui argentino, Senna brasiliano, entrambi hanno ampiamente superato le barriere della propria disciplina agonistica. Il “Pibe de oro” contro la Fifa, Ayrton contro la Fia. Due incendiari, due “bombaroli” di animi.
Nello sport della racchetta, forse nessuno è stato un Senna in tutto e per tutto. Federer ad esempio è in un certo senso una divinità anche fuori dal campo, ma gli manca forse la personalità fuori per essere come il brasiliano. Dopotutto, è svizzero, quasi tedesco, e non ha quei caratteri di misticismo, anche se a ben vedere certi suoi colpi, non si direbbe. Uguali in molte cose, troppo diversi in altre. Lo è stata, per quel senso di leggenda e di misticità, la “Divina” (Non è un caso il soprannome) Suzanne Lenglen, la tennista francese che per certi versi ha davvero superato delle barriere umane per entrare in una sorta di limbo fatto solo di leggende, di aneddoti, dettati anche dal tempo, assolutamente privo di media o di confronti. Anche Guga Kuerten, brasiliano come Ayrton, può essere accumunato al connazionale per il suo grande cuore, per quell’essere “carioca”, cosa a cui Senna teneva davvero tanto. Paragoni impossibili, forse, ma a volte può essere anche un gioco.