Quale forma ha l’acqua? In verità l’acqua prende la forma che le viene data, perché si sostiene che non ne abbia davvero una tutta sua. Proprio come un liquido, incapace di acquisire una sola forma, il tennis di Jannik Sinner fluisce, si adegua a ogni foggia o situazione. Scorre inesorabile ignorando gli ostacoli e procede […]
13 Apr 2014 11:00 - Ultim'ora
Un viaggio in Mali: gli orrori della guerra civile, il tennis per provare a dimenticare
di Redazione
TENNIS – Di Enzo Cherici
Non fa ancora caldo a Bamako, non quello vero. Durante il giorno, in questo periodo, la temperatura oscilla tra i 30 e i 35 gradi. Mi resta ancora un mese scarso a disposizione per soddisfare la mia voglia di tennis. Tra aprile e maggio non si scenderà mai sotto i 40, con punte di 47-48. Poi inizia la stagione delle piogge, e prima di settembre non se ne parla.
Quando sono arrivato in Mali, ormai 18 mesi fa, non avevo molte speranze di poter utilizzare la mia amata racchetta. Il lavoro all’Unione europea mi avrebbe occupato molto. Inoltre sapevo già delle condizioni climatiche quasi proibitive, ed ero informato sullo stato comatoso delle infrastrutture locali. Per non parlare, ovviamente, del difficile (eufemismo) momento che stava attraversando il paese.
Dopo il colpo di stato militare del marzo 2012, il Mali era sprofondato in una drammatica crisi politica. Il paese, di fatto, era spaccato in due. Il centro-nord, continuava ad essere controllato in toto dalle forze jihadiste; il sud, con la capitale Bamako, dalle forze militari golpiste. In questa situazione, capirete, il tennis non era esattamente in cima ai miei pensieri.
Eppure, proprio appena arrivato, ho immediatamente capito che il mio era stato un approccio eccessivamente pessimista. Intendiamoci, la situazione ambientale era realmente molto tesa. Ma un piccolo, significativo spazio per il nostro amato sport, sembrava schiudersi in modo del tutto inatteso. L’albergo Salam, che mi ospitava nelle mie prime settimane di permanenza in Mali, oltre all’imprescindibile piscina, era dotato di ben due campi da tennis. Certo, le condizioni della minuscola struttura lasciavano un po’ a desiderare, ma ero così felice di aver scovato quella piccola oasi nel deserto che li vedevo belli come il centrale di Flushing Meadows!
In quei giorni ho conosciuto Ber, il ragazzo che da lezioni ai clienti dell’albergo. È un tipo alto, imponente. Forse troppo per un tennista. Ma è mosso da due sentimenti, allo stesso tempo importanti e contrapposti: la passione e lo stato di necessità.
Abbiamo giocato parecchio insieme i primi tempi, anche perché io non conoscevo ancora nessuno e l’unico modo per scambiare due palle era quello di affidarsi all’istruttore. Mi chiamava e mi chiama tutt’ora Chef, capo. All’inizio gli rispondevo che io non comandavo nulla, poi alla fine mi sono rassegnato. È più forte di lui. Per rifarmi, lo chiamavo Monsieur Ber, ma lui mi disse che al limite preferiva Mister, “perché l’inglese è la lingua del tennis”.
Credo di poter dire che col tempo siamo diventati abbastanza amici. E così, m’ha raccontato un po’ come si svolge il suo lavoro. Non operando in un circolo, la clientela è quella dell’hotel. Niente corsi collettivi con i ragazzi dunque, ma solo lezioni private a ricche signore o, come nel mio caso, a disperati che non trovano partner con cui dividere un’ora di campo.
Per una lezione di un’ora chiede 3000 FCFA ( i Franchi dell’Africa dell’ovest), circa 4,5 euro. Se si è sprovvisti di racchetta, nessun problema. Ber affitta una dignitosa Babolat a soli 2000 FCFA.
«Riesci a cavartela con questo lavoro?», gli ho chiesto dopo un po’ che ci conoscevamo, tentando di fare del mio meglio per non apparire inopportuno. Devo ammettere che ero abbastanza preoccupato. La maggior parte delle volte che passavo da lui, lo trovavo con le mani in mano. Pochi clienti, pochi soldi, tanti problemi. «Va tutto bene, ho almeno un cliente al giorno», ha risposto cercando di tranquillizzarmi, ma con scarsissimi risultati. Il mio piccolo cervelletto occidentale s’è immediatamente messo in modalità calcolatrice. Un cliente al giorno, sette clienti la settimana, fanno 21.000 FCFA. «A volte anche 25.000», m’ha subito corretto con un sorriso carico d’orgoglio. Orgoglio che non ha tuttavia sortito effetti positivi nei miei confronti. 25.000 FCFA sono 37,5 euro. Moltiplicati per quattro fanno 150 euro al mese. Quando va bene.
Dal settembre 2012 fino alla fine dell’anno, ci siamo frequentati parecchio con Ber. Oddio, frequentati forse non è la parola più giusta. Abbiamo giocato tanto assieme, mettiamola così. Ma nel gennaio 2013, un nuovo shock colpiva il paese. Le forse jihadiste si spingevano sempre più a sud, prendendo ogni giorno il controllo di nuove città. Una volta arrivate a circa 500 chilometri da Bamako, la Francia – alla guida di una coalizione internazionale – ha rotto gli indugi ed ha inviato il proprio esercito per bloccarne l’avanzata. Iniziava così l’operazione Serval, tutt’ora in corso nel lontano nord del paese.
Il clima, già non facile, s’è ulteriormente appesantito. Il tennis, naturalmente, è sparito dai radar. In quelle settimane si lavorava e si stava in casa. Magari organizzandosi per passare serate tra colleghi, nella speranza di alleggerire la tensione.
Col tempo le cose sono migliorate. L’operazione militare ha raggiunto il suo scopo immediato, quello di bloccare gli estremisti e di scongiurare un “rischio Afghanistan” nel paese. Grazie anche agli aiuti dell’Unione europea in Mali si sono tenute nella seconda metà del 2013 le elezioni presidenziali e quelle legislative. C’è ancora tanto lavoro da fare, ma ora il paese ha un presidente democraticamente eletto (Ibrahim Boubachar Keita, da tutti chiamato IBK) e un’Assemblea nazionale. Un miracolo, se si considera che il golpe militare risale a nemmeno due anni fa.
Alcune settimane fa, come ogni mattina arrivando in ufficio, davo un’occhiata alla rassegna stampa. Tra scandali di vario tipo (tutto il mondo è paese) una foto-notizia catturava la mia attenzione. “Sèkou Dramè e Kadiatou Kèïta si confermano campioni nazionali di tennis”. Come come? In Mali si sono tenuti i campionati nazionali e io non ne sapevo niente? Ammetto che il mio orgoglio di piccolo giornalista abusivo ha subito un duro colpo. Ho cercato però di reagire subito, perché quella foto raccontava tante cose che avevano stimolato la mia curiosità e volevo saperne immediatamente di più!
Intanto, cosa non scontatissima in una paese come questo, sono venuto a sapere che esiste una Federazione. Fino a qualche anno fa comprendeva anche il ping pong, ora invece si occupa solo di tennis. Il presidente, Mohamed Oumar Traorè, è una specie di Galgani locale in carica dal 1997 e appena rieletto per un altro mandato di quattro anni. Fino al 2017, il Mali non avrà altri presidenti all’infuori di lui. Di giocatori professionisti, naturalmente, neanche l’ombra. I due campioni nazionali hanno ricevuto in premio 300.000 FCFA, 450 euro, più “materiale sportivo”.
Il circolo più importante della città – e molto probabilmente di tutto il paese – è il Tennis Club de Bamako. Scordatevi la classica struttura di circolo all’italiana, niente a che vedere. Tre campi in cemento allineati, circondati di palazzi nel bel mezzo della città, in condizioni non esattamente impeccabili. La superficie è molto irregolare e perfino la rete presenta buchetto qua e là più di qualche smagliatura.
Quando arrivo, c’è un gruppetto di ragazzini che gioca. Sono sette, tutti Under 14, bravini. Mi fermo ad osservarli un po’, hanno un’impostazione classica. Si capisce subito che I primi che avrebbero bisogno di un qualche aggiornamento sono proprio gli istruttori.
Approfitto d’una pausa per avvicinarmi a uno dei ragazzi, quello che mi sembrava un po’ più avanti rispetto a tutti gli altri. Si chiama Alì Bâ strong>, più che a disagio sembra sorpreso della mia attenzione. Gli chiedo se gioca dei tornei, mi risponde di si. «Vinci?». «Vinco e perdo», replica immacolato dimostrando molta più maturità del sottoscritto.
Mi accompagna dal suo istruttore, Mamadou Bouarè, un signore sulla cinquantina che, se possibile, è ancora più sorpreso del ragazzino. Mi invita ad entrare nel suo ufficio, ma subito si scusa perché non può offrirmi niente. Do un’occhiata in giro, per terra giacciono vecchie racchette e palline maltrattate dagli anni. Mamadou capta la mia malcelata perplessità e senza che chiedessi nulla precisa: «I ragazzi dell’équipe nazionale hanno tutti una racchetta nuova».
Cerco di nascondere il mio imbarazzo chiedendo dell’organizzazione del circolo. Attività, corsi, settore agonistico… Lui mi mostra, orgogliosissimo, la lavagna verde (desolantemente vuota) dove si può riservare l’ora di gioco. È il solo istruttore del circolo, ma l’impressione è più che altro quella d’un factotum. E quando gli dico che la mia racchetta ha bisogno d’essere incordata, lui scatta come una molla e mi mostra la macchinetta incordatrice. Il presso è di 10.000 FCFA (15 euro) e posso scegliere tra corde in budello e sintetiche. La chiosa finale vale il prezzo del biglietto: «Ma se porti le corde paghi solo 5000». Un mito!
Mi incuriosisce saperne qualcosa di più sui corsi collettivi per i bambini. Mi spiega che sono divisi in due gruppi: uno con i 7 di cui ho accennato in precedenza, formato dai migliori; l’altro con quelli meno bravi. Il gruppetto dei ragazzi più bravi ha l’attività finanziata dalla Federazione, gli altri non pagano perché non hanno i soldi. Mamadou, l’istruttore, riceve 70.000 FCFA al mese. 105 euro.
«Non sarebbe meglio metterli tutti insieme?» chiedo, pensando che giocando con i migliori anche i meno bravi potrebbero migliorare. «No, peggiorerebbero i più bravi», mi fulmina guardandomi come se fossi appena sbarcato da una navetta spaziale.
Seguono alcuni interminabili attimi d’imbarazzo, che vengono interrotti dal mio collega e amico Olivier, che chiede se, tante volte, esiste in città un posto dove si possa comprare una racchetta o delle palline.
Il nostro istruttore torna collaborativo e ci indica un negozio di articoli sportivi, “fornitissimo”, ad ACI 2000, uno dei quartieri più nuovi di Bamako, sorto nella zona del vecchio aeroporto. Ci congediamo da Mamadou (che mi chiede una copia dell’articolo, ma non so se sia il caso…) e ci avviamo spediti in direzione del negozio. Sono le 19 passate, ma qui tutti gli esercizi commerciali fanno la pausa pranzo e dovremmo trovare aperto.
Quando arriviamo sembra ci sia ancora qualcuno dentro, ma la porta d’ingresso è chiusa. Senza abbassare il finestrino della macchina faccio il segno del pollice in alto a uno dei guardiani, come per chiedere “è aperto?”. Lui fa segno di no, ma quando stiamo per ripartire ci invita ad entrare: «intendevo dire, no, non è chiuso». Cominciamo bene…
Entriamo e abbiamo subito la sensazione di essere entrati in un mondo parallelo. La manager del negozio è una cinese che non è capace di mettere in fila quattro parole di francese. Si capisce subito che il pezzo forte, per così dire, dell’esercizio commerciale (sempre per così dire) è l’abbigliamento. Di palline da tennis neanche l’ombra. Fa invece bella mostra di sé una racchetta Babolat, poggiata sullo scaffale che dà sulla strada.
Più che altro ci sono t-shirt e scarpe, ma su una delle colonne è esposta una chitarra nuova di zecca. Se non fosse un negozio di articoli sportivi si potrebbe persino pensare che sia in vendita… Ci avviciniamo agli scaffali delle scarpe. Olivier adocchia subito una strana scarpa Nike, con scritta e logo che non ispirano molta fiducia. Inizia a questo punto un surreale colloquio tra il mio amico e il commesso (maliano lui, non cinese) del negozio.
– «Questa scarpa è contraffatta, vero?»
– «Si si».
– «Ma è proprio sicuro che si tratta di vera contraffazione?»
– «Sicuro».
– «Allora guardi, glielo chiedo per l’ultima volta: lei mi garantisce che siamo in presenza di pura contraffazione?»
– «Al 100%».
Esilarante. E deprimente, allo stesso tempo. C’è ancora molto da fare per far crescere questo paese…
Continuiamo il nostro giretto nel negozio, alla disperata ricerca d’un qualche articolo utile a un tennista anche di basso livello. Ma appena entrati nella saletta adiacente a quella principale, uno spettacolo straordinario si presenta ai nostri occhi. Racchette? Macché! Nascosti dietro un ammasso informe di magliette (tante) e pantaloncini (pochi), sono esposti…strumenti musicali! E non si trovavano lì per caso, ma proprio per essere venduti. Una batteria, alcune chitarre elettriche, qualche basso. Persino una tastiera e un paio di sassofoni. Eravamo capitati nell’unico negozio al mondo misto sport e musica!
Ce ne andiamo comunque contenti. Anche se fallimentare, l’esperienza è stata divertente. Olivier mi riaccompagna a casa. Il tempo di una doccia e poi insieme ad altri amici per una cena programmata da tempo.
Ma non ci sarà nessuna cena questa sera. Il messaggio partito dai servizi americani non lascia spazio a dubbi: massima allerta terrorismo, evitare luoghi pubblici frequentati da expats. Non si può uscire. La segnalazione parla di probabili attentati con esplosivi nelle successive 72 ore. In un attimo siamo tornati a 12 mesi prima, all’inizio dell’operazione Serval.
C’è un senso di smarrimento, di tristezza. E la consapevolezza che i jihadisti non si sono dimenticati di Bamako. Vogliono solo colpirla in modo diverso. È il timore è che prima o poi ci riusciranno.
Le 72 ore sono trascorse senza incidenti. Per prudenza siamo rimasti rinchiusi quasi tutta la settimana. Casa e ufficio, nient’altro. Alla fine ci si sforza di tornare a una normalità almeno apparente. Ed è proprio vero, soprattutto in casi come questi, una telefonata ti salva la vita.
Era tanto che non lo sentivo Ber.
– «Giochiamo?»
– «Si, giochiamo».