Del Potro e il polso, una telenovela incoerente con falliti tentativi di riconciliazione

Di Davide Bencini

Continui dolori, dolorini, ritiri, infortuni e scelte incomprensibili continuano a caratterizzare la non conferma dell’argentino a grandi livelli. E nessuno comprende… Ormai sono passati 5 anni dal miracolo americano. Da quella serata di New York in cui Delpo stupì il mondo fregando da sotto il naso a un Federer sbadato e ottuso uno slam che sembrava già in bacheca.

Da allora è cominciata la guerra con i propri polsi, che in questi anni lo hanno delimitato creando il continuo tormentone pre-estivo, estivo e post-estivo su “Quando rivedremo il vero Delpo?”, affiancato da quello di essere nominato, insieme al troll Gulbis, “mina vagante” in ogni torneo da qui a Pasqua del 2023.

Prima arrivarono i dolori al polso destro, costretto a un intervento nel 2010 che di fatto lo tenne lontano dai campi per un anno, oltre a fargli perdere quasi 500 posizioni in classifica. Dopo di che, negli ultimi due, sono cominciati i dolori all’altro polso, alternati da vari acciacchi ad altre articolazioni. E via a ginocchi fasciati, spalle doloranti, cadute rovinose in quel di Londra… Viene da chiedersi se ‘Palito’ in giro per il mondo da un torneo all’altro ci vada con il borsone pieno di cerotti e la cassetta del pronto soccorso o i santini e l’acqua di Lourdes – tanto è provato che le racchette tanto spazio non glielo tolgono, visto che gliene dovrebbe essere rimasta una del vecchio sponsor…). Diciamo che gli è mancato solo di nascere svizzero, così almeno avrebbe avuto anche una croce nella bandiera (anche se bianca su rosso e non il contrario) e il quadro sarebbe stato perfetto.

Ma premessi tutti gli infortuni che ne hanno condizionato il ritorno o la conferma a quel successo trovato nell’estate del 2009, a questo punto, viste le ultime uscite e le ultime dichiarazioni, la domanda che molti cominciano a porsi è se il vero problema non sia anche nella testa dell’argentino, che pare entrato in un giro di decisioni e prese di posizione circa lo stato del proprio polso sinistro capaci di far concorrenza anche allo staff di Nadal con la saga del ginocchio.

Se fin dall’anno scorso erano ricominciati i dolori, superati in gran parte anche grazie all’arrivo di risultati importanti come la semifinale a Wimbledon, la finale al Master di Shanghai o il successo a Basilea, quest’anno le cose sono andate di male in peggio, con la, per molti (allora per chiunque), inspiegabile sconfitta contro Bautista Agut a Melbourne, seguita dalla claudicante uscita a Rotterdam. Viaggi in America dal luminare del polso precedente, visite e dubbi circa la propria condizione e la propria capacità di giocare erano all’ordine del giorno, salvo poi venire messi in qualche modo da parte non appena un tabellone usciva e vedeva Delpo regolarmente tra le teste di serie.

Cosa che sembrava dare tranquillità nei suoi tifosi, i quali, come ogni appassionato normale che si rispetti, avrebbero finito per pensare “Beh, se gioca, vuol dire che poi tanto male non sta…” anche perché essendo il polso la prima articolazione sollecitata nel nostro beneamato sport, non è che ci si possa andare leggeri.

E invece l’apice della telenovela viene raggiunto a Dubai, dove un Juan Martínin lacrime abbandona il campo dicendo con costernazione di non poter andare avanti, con quel «non posso essere il giocatore che vorrei» che se detto in spagnolo con tutta probabilità prenderebbe il senso del “non riesco a esserlo”… Più che Del Potro, ‘Palito’ rischia di diventare “Del Potrò?”…

E allora al povero tifoso non resta che aizzarsi e chiedere a quel punto: perché? Perché giocare anche nel torneo di doppio? Perché non fermarsi per farsi curare, se il dolore è tanto forte da non riuscire a giocare? Perché non evitare di fare peggio, se la situazione era così difficile?

Il tutto per poi magari darsi pace dicendosi «Vabbeh, è andata, a questo punto Delpo si farà vedere e starà fermo in convalescenza». Macché. Eccolo che tanto per andare incontro al massimo del paradosso s’iscrive a Indian Wells, sia al torneo di singolo che a quello di doppio. E il tifoso, ormai tra il depresso e l’imbufalito, a questo punto gli chiederebbe davvero, se solo potesse, di farsi vedere: ma “da uno bravo”, come si dice dalle nostre parti.

Il suo comportamento appare quanto meno incoerente, per usare un eufemismo. Un po’ come mettersi a dieta e andare il giorno dopo alla Sagra del Tortello a Scarperia… Forse le idee chiare, dopo tutti questi mesi passati tra un acciacco e l’altro, sono difficili da intravedere. Forse il bisogno supera la ragione. Fatto sta che il rischio per noi appassionati è quello di vedere un potenziale numero uno di perdersi e di farsi del male da solo senza nemmeno rendersene conto.

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