Challenge Round. Quando a New York Wilander sconfisse Ivan il Terribile

Il numero uno del mondo da tre anni ininterrotti, vincitore delle ultime tre edizioni del torneo e alla settima finale consecutiva nell’evento. Contro di lui il numero due, già trionfatore in sei prove dello Slam (di cui due in quella stagione) su tre superfici diverse, ma ancora mai incoronato sovrano dal computer. La rivincita della finale di dodici mesi prima, che era stata la più lunga nella storia della manifestazione. In palio, oltre al titolo, il primato nel ranking ATP. Era il 1988, un quarto di secolo fa esatto. I protagonisti di uno dei match clou degli US Open più attesi di sempre si chiamavano Ivan Lendl e Mats Wilander.

 

Lo svedese era deciso a sferrare l’assalto decisivo al trono di Ivan il Terribile, che regnava senza pause dal settembre dell’85, quando aveva sconfitto John McEnroe nell’ultimo atto di Flushing Meadows, strappandogli così il primato. In quell’88 Mats aveva già vinto Australian Open e Roland Garros, mentre a Wimbledon era uscito nei quarti per mano della sua nemesi, Gattone Mecir. Il ceco d’America, invece, era ancora a secco di Major: il suo centro più recente risaliva proprio agli US Open di un anno prima, quando aveva superato Wilander in quattro set durati quattro ore e quarantasette minuti. I due si erano poi incontrati al successivo Masters di New York, con agile affermazione di Ivan, e poi mai più.

I contendenti avevano raggiunto la finale con una certa fatica: Lendl era stato portato al quinto al primo turno dall’israeliano Amos Mansdorf e poi aveva dovuto cedere un set sia allo svizzero Jakob Hlasek negli ottavi sia all’emergente 18enne yankee Andre Agassi in semifinale. Wilander aveva lottato fino al parziale decisivo con Kevin Curren al secondo round e poi si era trovato inizialmente in difficoltà con Emilio Sanchez nei quarti, prima di liquidare in semi l’outsider australiano Darren Cahill, che in precedenza aveva eliminato Boris Becker.

Entrambi erano motivatissimi: Lendl per non restare a secco di Slam nell’annata e difendere la sua leadership assoluta; Wilander per issarsi finalmente al vertice, dopo varie stagioni ad altissimo livello. Ne venne fuori un incontro memorabile. Lo scandinavo, che aveva travolto Henri Leconte nella finale del Roland Garros senza mai avere la necessità di colpire la palla al volo (era andato a rete quattro volte, ma il francese aveva sempre sbagliato il passante), dimostrò la sua eccezionale duttilità, impostando un match tutto d’attacco, per contrastare la maggior potenza da fondo di Lendl, risultata determinante nella finale dell’87. Serve & volley, attacchi in controtempo e tutto il repertorio costruito faticosamente in anni di estenuanti allenamenti e di fortunate partecipazioni a eventi doppistici (fra l’altro, con Joakim Nystrom aveva vinto a Wimbledon nell’86): Mats si avventurò a rete la bellezza di 131 volte, mettendo pressione al rivale dall’inizio alla fine e assicurandosi così la massima dose di imprevedibilità.

L’attuale coach di Andy Murray, ovviamente, non se ne stette buono a guardare, ma, anzi, cercò in tutti i modi di spostare l’inerzia della sfida dalla sua parte. Sembrò quasi esservi riuscito, quando, dopo essere stato sotto per due set a uno, si arrampicò al quinto e, dal 2-0 Wilander, conquistò tre giochi di fila, passando lui a condurre per 3-2. Lì Mats, che già stava esprimendosi al meglio, sentì che doveva dare fondo alle sue energie residue, cercando di innalzare ulteriormente il proprio livello (non a caso Rino Tommasi scrisse poi che aveva giocato al «120 per cento in un incontro di storica importanza»). Lo fece, si procurò ancora un break di vantaggio e, dopo aver salvato due palle del controbreak, chiuse al secondo matchpoint, sul quale seguì per l’ennesima volta il servizio a rete, inducendo Lendl a sbagliare la risposta di rovescio. 64 46 63 57 64, quattro ore e cinquantacinque minuti: 8’ in più rispetto al match clou dell’anno prima. Wilander era il primo tennista svedese capace di trionfare negli US Open (Borg non vi era mai riuscito) e, soprattutto, il nuovo numero uno del mondo. Non sarebbe durata granché (venti settimane in tutto), ma nessuno gli avrebbe mai tolto la pienezza di quella serata gloriosa e indimenticabile vissuta tra le mille luci di New York.

 

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