L’unico che non vesta i colori della pioggia è lui, Roger
Federer, seduto accanto a Catherine principessa del
Galles (essere chiamata Kate, sappiate, non le piace
granché) per una volta dalla parte di qua, nel recinto
del Royal Box. Ha una giacca color crema, che spicca
tra i signori in grigio nuvolone che lo circondano.
Effetto Regina Elisabetta, si potrebbe dire, costretta
per anni a indossare vestiti dai colori improponibili,
celestini o gialli banana, per rendersi visibile a
distanza di chilometri. Uguale per Roger, che sotto il
tetto del Centre Court chiuso per pioggia era
impossibile perderlo di vista, anche se decidevi di
girare la testa dall’altra parte. È venuto per il premio
destinato a chi ha vinto più Championships, i suoi
sono otto e l’applauso è stato interminabile. Ma era
l’ultima occasione per darglielo, dal prossimo anno
rischiavano di dover raddoppiare la cerimonia e
accogliere anche Djokovic, che al momento è un
torneo sotto, ma tra due settimane, chissà…
La pioggia a Wimbledon fa parte del gioco. Entra
negli schemi tattici, li cambia, li stravolge, dirotta
capricciosamente i suoi effetti sull’uno o sull’altro dei
contendenti. Promuove e boccia, senza tener conto
dell’importanza dei nomi in campo. È democratica.
“Pioggia c’è quando divinità lassù fischia”, avrebbe
chiosato qualche allievo tennista di mister Boskov. Ma
a chi finirà per dare una mano, una spinta, o anche
soltanto un punto in più, nessuno può saperlo con
certezza.
Accade qualcosa del genere anche fra Berrettini e
Sonego, derby italiano numero 21 nei tornei dello
Slam. Il primo spruzzo giunge sul 5-4 per il torinese,
senza break, con i due che segnano in quel momento
il cento per cento di punti vinti con la prima di
servizio, quasi un’esagerazione. Il match si ferma sei
minuti appena, Mat e Sonny nemmeno escono dal
campo, e il tipo con il phon che sembra un bazooka,
visto ieri sul Centrale mentre Djokovic faceva teatro,
resta disciplinatamente in attesa. Si riprende,
Berrettini porta a casa il 5 pari, Sonego invece
s’inceppa, concede le prime due palle break
dell’incontro. Salva la prima con un ace, sulla seconda
Berrettini fa tutto giusto, crea un varco invitante per
piazzare il dritto in avanzamento, e lo sbatte fuori di
mezzo metro. Si arriva al tie break, e Matteo va
ancora avanti, ha un mini-break e lo spreca, due altri
errori di dritto lanciano Sonego, ma frena anche lui. A
parità di mini-break il punteggio offre al torinese la
prima palla del set. Non la sbaglia. E il temporale
irrompe finalmente sulla scena.
Si tracciano le prime indicazioni. Le poche partite
giocate rendono i dritti di Berrettini meno affidabili
del solito, e lo si è visto, ma dopo quindici giorni di
continue richieste del web di preparare i coccodrilli
tennistici per Matteo, pronto addirittura al passo
d’addio, lo rivediamo in campo di nuovo in grado di
fare partita. Il passo avanti mi sembra evidente. Sta a
lui ripartire, se non da Wimbledon, contro un Sonego
ben presente nel match, dai successivi tornei. Ma
l’incontro resta da giocare. Alle 18:32 il comunicato
dei referee lo sposta a domani. Alla fin fine la pioggia
potrebbe aver aiutato proprio Berretto, un po’ in
confusione (per desuetudine) quando si è trattato di
chiudere il conto.
Se la pioggia è democratica, molto meno lo sono i
tetti. Srotolati nei loro mille gangli, e posti Centre
Court e Numero Uno al riparo, hanno dato modo ad
Andy Murray, contro Peniston, di recitare nei panni di
se stesso, quello di un tempo però, o quasi. Davanti a
Federer rimasto a guardarlo, a fine match Andy ha
detto di sentirsi in forma come non gli capitava da
tempo. «Se c’è Roger che mi applaude, poi, tanto di
guadagnato. L’ultima volta, su questo campo, con lui
in tribuna, fu ai Giochi del 2012, per il match con
Wawrinka. E lui ovviamente tifava per Stan, mica per
me». Risate e applausi. Come vedere McCartney a un
concerto di Ringo Starr. Tra vecchi Fab, ci si capisce.
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