C’è qualcosa di poetico nella quattordicesima di Nadal, di oscuro e di rigenerante al tempo stesso, quasi un percorso attraverso il momento più buio della sua persona, per sortire a riveder le stelle al compimento del tragitto. L’interpretazione personale di una commedia divina in chiave sportiva.
Si va con Rafa oltre la soglia del dolore, aprendo porte che pochi hanno avuto il coraggio di spalancare, non sapendo che cosa vi avrebbero trovato dietro. Lo si ammira per quello che fa, chiedendosi per quanto ancora potrà farlo. Stiamo assistendo alla sua ultima volta? Vincerà e dirà basta?
L’obiettivo si concentra su di lui, il resto non c’è, e a nessuno importa. Non c’è l’avversario, non c’è la finale. Rafa sembra quello di sempre, ma nei momenti in cui la tensione del match offre qualche secondo di tregua, non è difficile accorgersi che zoppica. È un miracolo, il suo. L’ennesimo di una carriera che si è arrampicata più in alto di tutte, mostrando al pubblico, agli appassionati, a chiunque abbia pensato che la sua vicenda meritasse una lettura più approfondita di quella che possono garantire i risultati, che per sfidare la Storia non basta essere soltanto forti. Nel corso degli anni Nadal ci ha detto che non esiste vittoria senza forza di volontà, senza un fisico adeguato, senza l’umiltà, senza mettersi alla prova, senza una tecnica che va migliorata giorno per giorno. Oggi, Rafa aggiunge l’ultimo tassello al suo cantico dei campioni, per dirci che non c’è vittoria senza dolore. È tra tutti, è il messaggio più vero e terribile.
Casper Ruud è un bravo figlio, non un estroso intrattenitore, ma un ragazzo con la testa a posto, che ha voglia di lavorare e di fare le cose per bene. Eppure, viene spontaneo chiedersi se abbia davvero compreso il messaggio che Rafa gli ha inviato. Quella voglia di andare oltre, sempre, senza pensare mai che esista un traguardo finale, ma solo una strada che procede tra sacrifici e lavoro, lungo la quale si può scoprire necessario cambiare se stessi. Ci vuole coraggio e determinazione, e non sono esattamente il coraggio e la determinazione che servono a ottenere un punto più difficile di altri. Sono elementi del proprio rinnovamento. Particelle da inserire nel proprio dna.
Non conta la finale. Non c’è stata. Altrimenti occorrerebbe dire che è stata bruttina, scialba e scontata. Ruud si è defilato nel primo set, e sul vantaggio di 3-1 nel secondo è finito dentro la centrifuga azionata da Nadal. Undici game, l’uno via l’altro, fino a mollare per asfissia.
Quattordici finali e 14 vittorie, sono cifre ai confini della realtà. Un’epopea tennistica lunga 112 match vinti, con tre sole sconfitte in 17 partecipazioni. Fantascienza. Rafa giunge a 22 Slam, e se non fosse nelle condizioni in cui si trova, mille volte descritte in queste ultime giornate («Gioco senza sapere se ho ancora un futuro»), ora punterebbe al Grande Slam. Ma in questo collier di 14 perle, manca quella più luccicante della sua avventura al Roland Garros. Quella che annunciò la svolta al mondo del tennis, la semifinale del 2005 contro Federer, la prima a Parigi tra i due.
Nadal compiva 19 anni proprio nel giorno di quella sfida, e aveva già allora un obiettivo definito: contrastare il Più Forte. Federer avrebbe dato al tennis le giocate cristalline, i colpi impossibili, i momenti più alti, lo avrebbe elevato verso vette incontaminate accostandolo all’arte. Con Rafa, invece, a vincere sarebbero state l’energia, la passione, la frenesia, il furore agonistico. La gioia di essere positivi. L’urgenza di misurarsi e di scoprirsi. Il tennis che non conosce soste, che ti brucia dentro. Federer era l’arte elevata a guida della quotidianità. Rafa il moto perpetuo che diventa strategia.
Il match si chiuse a tarda ora, e segnò il capitolo iniziale di una storia inedita. Valeva la pena chiedersi quanto sarebbe potuta durare. Oggi lo sappiamo, Federer è giunto per primo a 20 titoli dello Slam, ed è stato un record enorme; Nadal è salito poi a 22 e ha conquistato 14 Roland Garros, un’egemonia fuori da qualsiasi logica terrena. Mai il tennis aveva calato sul campo due tennisti così forti, così totalizzanti. E così mirabilmente antitetici.
Vicini già allora, sebbene Federer vincesse ovunque. Roger capì che da Rafa doveva imparare tutto quello che poteva sul tennis da terra rossa, la pazienza che occorre nell’impiantare uno scambio, la visione del gioco. Non vi è riuscito del tutto, e mai nella misura che gli sarebbe servita per sfidare alla pari Nadal sul rosso. Ma ha vinto anche lui un titolo a Parigi. Rafa, con l’osservazione continua di Federer e delle sue doti, ha rafforzato la propria volontà di diventare campione su tutte le superfici del circuito.
Sono passati 17 anni, che lo yin e lo yang del nostro sport hanno trascorso a stretto contatto. E ora il tennis è una sfera chiusa, esatta, equilibrata. Come una pallina.
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