Una svolta epocale, una mossa che potrebbe segnare la storia se non altro del tennis femminile.
La WTA nella serata italiana dell’1 dicembre 2021 ha ufficializzato la sospensione di tutti i suoi tornei del circuito maggiore sul territorio cinese, comprendendo anche la vicina e travagliata Hong Kong.
IL CORAGGIO DELLA WTA, I DUE VOLTI DELLA LEADERSHIP
La magnitudine e l’impatto di questo scisma sono giganteschi. Steve Simon, CEO della WTA, non ha mai indietreggiato dopo aver da subito ritenuto il governo cinese responsabile della sparizione di Peng Shuai. Non ha mai creduto ai tanti tentativi da Pechino di mostrare una giocatrice serena e in salute, non a rischio e che negava ogni riferimento alle accuse di molestie sessuali mosse il 2 novembre scorso. Un mese dopo, ha dato una dimostrazione al mondo che gli affari non sono tutto e che, come ripeteva nelle settimane precedenti, il mondo deve poter tornare a decidere cosa sia giusto o sbagliato in base a un giudizio morale.
L’enfasi di queste frasi è abbastanza elevata, fino a ora nessuno aveva mai osato muovere un dito contro Pechino. Non in questo modo, senza giri di parole, in maniera diplomatica ma chiara e decisa. La NBA più volte si è piegata, pensando al portafoglio e rifiutandosi di supportare chi come Daryl Morey nel 2019 aveva mostrato supporto a Hong Kong. Un colpo, quello, che fece perdere quasi mezzo miliardo di dollari alla lega di basket più famosa del mondo per non parlare della sospensione di un anno delle trasmissioni di partite in Cina. La NBA come il CIO, il Comitato Olimpico Internazionale che si è mostrato talmente servizievole verso il partito comunista da inscenare una video-chiamata che ha fatto infuriare tantissimi che vedevano nel gesto una mossa per ripulire Pechino dai suoi doveri. E con loro tante altre associazioni che non si sono esposte, che da partner del partito comunista sono diventate come dei pupazzetti al servizio del regime totalitario e incurante dei diritti umani.
Nessuno si aspettava questo sviluppo. Simon nel 2019 annunciò trionfale l’accordo da un miliardo di dollari con Shenzhen per muovere le Finals in un fantascientifico nuovo impianto da 15.000 posti e un montepremi mostruoso di 14 milioni di dollari con un contratto decennale. Due settimane prima che scoppiasse il caso lo stesso Simon allungava il contratto con Shenzhen dal 2028 al 2030 per recuperare le due edizioni perse a causa del covid-19, pochi mesi prima la presidente della WTA Micky Lawler dichiarava che i rapporti con la Cina continuavano anche dopo la pandemia e che non si poteva dire ‘no’. Nulla faceva presagire la rivolta, malgrado il bene morale suggerisse questo. Loro erano la parte che comunque non sarebbe uscita bene dalla contesa: da un lato perdevano il rispetto delle giocatrici, compresa Peng stessa, dall’altra perdevano una montagna enorme di soldi. Il fatto che per una volta un’associazione sportiva ha voluto a tutti i costi scegliere la persona sul profitto è qualcosa di talmente audace quanto lodevole. E sapeva molto bene a cosa sarebbe andato incontro, confessando in esclusiva alla BBC che ha passato queste ultime settimane pensando giorno e notte a cosa poteva significare di traumatico per le loro casse staccarsi da chi mette sul piatto con 10 tornei circa il 40% dei guadagni annuali, ma che questa era la mossa da fare perché Peng Shuai come persona e tennista è superiore a ogni affare: “Questo è qualcosa che non possiamo ignorare. Ce ne fossimo disinteressati dopo aver fatto avere le nostre richieste staremmo comunicando al mondo che non indagare correttamente accuse di molestie sessuali sarebbe ok, quando in realtà così non è”.
A meno di uno stravolgimento delle forze in campo e subentri qualcosa che possa far crescere a dismisura la pressione sul governo cinese, Pechino non cederà. Lo scrive anche la famosa attivista cinese per i diritti umani Cao Yaxue: “Potete chiedere di avere provate prove che Peng Shuai sia libera e che stia bene, ma non le avrete mai. Potete chiedere di un’indagine trasparente delle sue accuse di molestie sessuali, ma non prendiamoci in giro. Noi abbiamo una pandemia che ha avuto origine in Cina e che ha devastato il mondo per ormai due anni e non riusciamo a ottenere una vera investigazione sulle sue origini. Che possibilità ci sono che questo succeda col caso di Peng Shuai? Quando abbiamo a che fare con la Cina non otteniamo nulla se tutto quello che facciamo è chiedere al regime comunista di fare la mossa giusta e ce ne laviamo le mani. Dobbiamo mettere dei paletti, capire le nostre posizioni e applicarle in un confronto con loro”.
GLI ATTIVISTI VITTIME DEL GOVERNO CINESE
Il lungo articolo scritto da Cao dal titolo “Che cosa attende Peng Shuai” ha cercato di mostrare che ci sono punti in comune con diversi esempi del passato, persone che si sono dovute abbandonare al volere di Pechino, costrette alle volte con la tortura a dover rispondere quello che veniva loro imposto. Il primo esempio arriva da Wang Yu, che nel 2016 ricevette il premio International Human Right Award ma già in stato di arresto nell’ambito del “709 Crackdown” di un anno prima, un intervento del governo per sedare vari attivisti, venne portata dalla prigione in un ristorante a Tianjin dove fu costretta a dire di fronte alla telecamera che non accettava il premio e anzi lo riteneva una forte offesa, una via per denigrare il governo cinese: “Sono cinese e accetto solo i riferimenti del governo cinese”. Due avvocati scrissero una lettera che invitava i rappresentati del premio a desistere: “Wang Yu ha spiegato che rifiuta in ogni modo il premio e se voi forzatamente glielo conferite starete infrangendo la sua reputazione, con la possibilità che si riservi il diritto di agire per vie legali”. Il premio venne conferito lo stesso, andò Cao a ritirarlo e subito, letta la lettera, affermò di non credere assolutamente potesse essere stata scritta dall’attivista. Wang venne liberata e proprio Cao andò a parlarle. Come si immaginava, Wang affermò che non sapeva nulla dei due avvocati e che la sua liberazione era giunta perché la confessione fatta al ristorante fu concordata con la libertà, sebbene parziale perché venne trasferita inizialmente in una località sperduta vicino alla Mongolia, con telecamere ovunque lungo l’abitazione e l’esterno, senza possibilità di contatto col mondo.
Oltre a Wang, c’è Xie Yang. Altro attivista per i diritti umani, dell’Henan, arrestato anche lui nell’operazione “709 Crackdown” del 2015. Agli inizi del 2017 rivelò ai suoi avvocati le pesanti torture subite mentre era ancora in confinamento scatenando un misto di rabbia e indignazione che portò 11 ambasciatori internazionali a Pechino a chiedere spiegazioni. La reazione del governo fu di lanciare una pesante campagna contro la moglie e gli avvocati di Xie tramite la tv di stato per dire che era tutto parte di un piano per attaccare il paese mentre un loro procuratore capo in tv annunciava di non aver trovato segni di quanto accusava. Non ci fu tortura, nulla. Anzi, Xie Yang aveva avuto tutte le comodità per riposare e rimettersi in forma (ricorda qualcosa?). A quel punto, le autorità cinesi forzarono Xie a confessare in diretta tv di aver detto il falso nel comunicato che aveva aperto lo scandalo. Una volta rilasciato, anche lui comunicò a Cao di aver subito forte coercizione dal governo che ha inventato tutto.
Il terzo esempio proposto è Gui Minhai, cinese naturalizzato svedese che aveva grandi allacci con Hong Kong e venne rapito in Thailandia nel 2015 da agenti cinesi e riportato in Cina. Scoppiarono grandi proteste a Hong Kong e in diverse parti del pianeta prima che lo stesso Gui comparve davanti alla tv di stato cinese per dire che non era vero nulla, che era tornato in Cina per altri motivi ma di sua volontà e: “Non voglio alcun individuo o organizzazione interferire con la mia vita privata” (anche qui, ricorda qualcosa?). Gui fu rilasciato a inizio 2018, ma subito dopo venne riarrestato quando si scoprì che cercò di lasciare il paese per tornare in Svezia. Mesi dopo apparve anche lui in tv: “La Svezia ha cercato in tutti i modi di interferire con i miei affari. Ho scritto una lettera all’ambasciatore svedese di Pechino, spero la faccenda si chiuda appena possibile”.
CONTATTI TRA PENG SHUAI, WANG YU, XIE YANG E GUI MINHAI
Come scrive la stessa Cao gli esempi da proporre sarebbero decine e decine, ma già così si capisce la linea del regime comunista. La copertura, la negazione, il rimbalzo delle accuse alla vittima che vuole puntare il dito contro la Cina per fare giochi sporchi. Solo il 23 novembre il portavoce del ministro degli esteri cinese Zhao Lijiang dichiarava che, dopo la video chiamata del CIO, si augurava che si spegnesse il clamore e si smettesse di metterla sul piano politico.
Copertura: Peng come loro è stata di fatto nascosta al pubblico, il suo argomento è tabù in Cina, è riapparsa 18 giorni dopo su indicazione di fonti governative e dal 22 novembre non si hanno di nuovo più notizie.
Negazione: il governo cinese ha fatto di tutto per negare, fin qui, le accuse di molestie sessuali a Peng come le torture a Xie. Per loro Peng è stata a casa a riposare assieme alla famiglia.
Rimbalzo delle accuse: è la WTA che sta creando un caso politico, e qui è stato fondamentale per loro avere l’apporto del CIO che di fatto ha ulteriormente ripulito la loro immagine con una mossa da PR perfetta. È la Svezia che si sta intromettendo in affari che non dovrebbe.
Cao scrive, alla fine: “Peng Shuai non sarà più libera. Il governo cinese non deve metterla per forza in prigione per avere controllo su di lei. La sua stessa casa può diventare una prigione con sorveglianza e telecamere. Molto difficilmente lei potrà lasciare la Cina da adesso in poi. Ha 35 anni, verrà molto probabilmente spinta al ritiro dal tennis. La WTA e le sue colleghe non potranno più parlarle liberamente. Che lei capisca o meno la situazione, qualsiasi sia la sua volontà, lei avrà zero possibilità di scelta tranne che dire e fare quello che le viene imposto”.
Simon forse spera ancora di riavere la sua giocatrice e di poter tornare ad avere il tour in Cina, per questo ha specificato ad AP che si tratta appunto di “sospensione” e non “cancellazione” degli eventi Le speranze sono minime, a esagerare. Il confronto con Pechino fin qui è stato prossimo allo zero malgrado per settimane abbia cercato di spostare le montagne. Come immaginavamo, la videochiamata della mini delegazione del Comitato Olimpico di domenica 22 novembre ha spaccato il campo. Loro da una parte la Cina, le Olimpiadi e i suoi sponsor dall’altra. Per questo ha specificato (giustamente) come non sia affatto contento di questa mossa e di come non ci sia stato nel frattempo alcun segnale. Questa però è la realtà e il suo coraggio di agire, magari, potrà indicare per la WTA un nuovo percorso per attirare nuovi investitori disposti a fiondarsi su un marchio che da oggi diventa quello che ha affrontato e imposto il suo volere alla Cina. A pensarci bene sembra ancora assurdo.
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