Gemelli. Forse diversi, ma comunque gemelli. Significherà pure qualcosa, no? Chiudere i rispettivi match a distanza di dieci secondi l’uno dall’altro, per esempio. E farlo con una saetta di servizio che gli avversari manco riescono a vedere. Vuol dire firmare un punteggio pressoché identico, e raggiungerlo con le armi più consolidate della loro santabarbara tennistica, anche queste – guarda un po’ – in dotazione comune… Il servizio che viaggia sopra i 220 orari, e il dritto che sembra un timbro sul match, e fa quasi lo stesso rumore. Vittoria e urlo da cavernicolo, altro tratto in comune. Sonego, si sa, è più canterino, incide perfino i dischi, e infatti accompagna gli sforzi con ripetuti do di petto, sottolineando con il tono della voce le diverse difficoltà dei colpi giocati. È una cosa che si ritrova in natura, questa. Tipo il canto delle balene. Sembrano suoni fra loro uguali, invece si diversificano nelle frequenze, e parlano, invitano, magari anche spiegano. Lo stesso fa Sonego con il suo pubblico. Il suono delle sue partite è l’unico che meriti di essere riversato su un cassetta stereo: attraverso i rantoli si può immaginare che cosa sia successo in campo. Berrettini, invece, è un po’ più orso, ma è questione di carattere. Però la soddisfazione del “wouh” finale (ma sì, una cosa a metà fra il wow americano e il grugnito dell’orso) se la prende anch’esso, con lecita soddisfazione, e sembra proprio quello che usa lanciare il suo gemello di tennis.
Wouh! Due vittorie e due passaggi agli ottavi. Sessantasei anni dopo l’ultima volta che da queste parti (1955) si coagulò una coppia di italiani in vena di stupire. Si chiamavano Nicola Pietrangeli e Beppe Merlo. Altri tempi, si dice in questi casi, ed era proprio così. Tempi diversissimi dagli attuali. Beppe giocava bimane, e allora era quasi un “caso”, uno che non si capiva perché s’intestardisse a tenere la racchetta in quel modo orribile. Però, era grandioso, a suo modo. Ai cambi di campo voleva il thé. Bello caldo, faceva sapere. E con un velo di latte.
Berrettini e Sonego hanno meno pretese, ma solo sul servizio ai tavoli. In realtà si stanno abituando a pensare in grande. In questo Mat è facilitato da una fisicità che comincia ad apparire quasi molesta agli altri frequentatori del Tour. Ma è una condizione naturale, la sua. Grande lo è davvero, e riesce a essere dirompente quasi senza sforzo. Al povero Bedene (sloveno, naturalizzato britannico, poi di nuovo sloveno), nei primi punti del match, sul proprio servizio, Berrettini ha concesso zero punti. La pioggia l’ha fermato sul 4 pari dopo due palle break salvate a stento da Bedene, e quando si sono rivisti sul campo, due ore dopo, Berrettini ha fatto il break, ha concesso un punto appena sul servizio e ha chiuso 6-4, il primo della serie.
Numeri da brivido: 82% di servizi vincenti, 81% addirittura con la seconda di servizio, spedita spesso oltre i 170 orari, 100% i punti ottenuti a rete, 38 winners e 23 errori non forzati contro i 20-23 di Bedene, e altri 20 ace, da aggiungere ai 40 ottenuti nei primi due match. Solo in avvio del secondo set Matteo si è trovato in difficoltà, e ha lasciato allo sloveno due palle break, annullate con una seconda al corpo e tre ace filati. Lo chiamano il martello, ma è meglio di un black&decker.
Anche Sonego ha numeri simili. Contro Duckworth l’obiettivo era di non dare spazio alle variazioni dell’australiano, e Lorenzo ha assolto il compito con un 84% di servizi vincenti, 22 discese a rete premiate dal punto (85%), 32 winners e 22 errori non forzati (contro il modesto 14-24 di Duckworth).
Avversari alla portata degli italiani, si dirà. Ed è vero… Ma è anche ciò che mancava al nostro tennis da molti anni a questa parte, quella netta, gradevole sensazione di avere in campo i più forti. Berrettini lo è da qualche anno, ormai fisso nella schiera dei Top Ten e consideratissimo dai suoi pari. Sonego si sta affermando a piccoli ma solidi passi. La classifica lo proietta al numero 25, best ranking (Berrettini è ottavo), ed è 14° nella Race (Berrettini 7°). «Vorrei tanto Federer e il Centrale», dice il torinese. Li avrà. Domani, nel lunedì di fuoco che Wimbledon ospita per l’ultima volta (dal prossimo anno si giocherà anche la domenica di mezzo), i due saranno di fronte sul Centre Court. Un’esperienza che Berrettini ha vissuto con grande emozione (e una secca sconfitta) due anni fa. Non importa. Ha ragione Lorenzo: «Voglio misurarmi ai piani più alti». Matteo aspetta Ivashka, che non è una bellona dell’Est che voglia soffiare il posto ad Ajla Tomljanovic (anche lei agli ottavi, a proposito), ma Ilya Ivashka, bielorusso, per giunta cognato di Khachanov, una delle vittime preferite di Berrettini. Numero 79 Atp. «La classifica non conta, se è giunto fin qui vuol dire che ci sa fare», commenta Matteo. Dirompente e saggio, cosa volete di più?
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