Ecco uno che gioca “da italiano” il nuovo tennis. Lo dico convinto che sia stato proprio quel Dna tricolore a farsi strada, nei momenti più tosti del match con Roberto Bautista Agut, e permettere a Matteo Berrettini la prima conquista di una carriera che gli auguro lunga e onusta di trofei.
Quello di Gstaad è pesante, sia per gli sviluppi che avrà, sia perché composto da una roccia delle Alpi che circondano la cittadina svizzera. Matteo lo ha sollevato con una presa bimane, preoccupato di farlo cadere, e l’emozione si è fatta sentire nelle prime dichiarazioni dopo il match, quando ha ringraziato anche l’albergo e la cucina «davvero ottima».
Dovrà abituarsi, Matteo, e imparare a stare lassù, sul podio, perché se tutto filerà liscio non sarà Gstaad la prima e ultima occasione. Intanto, come vincere una finale difficile, la prima nel circuito Atp, e contro un avversario ben più rodato di lui e con otto trofei già in fila nella sua bacheca, l’ha capito subito, per vie naturali.
Duecentoventisette orari, il servizio. E il dritto passante che ha inchiodato Bautista Agut nel tie break del primo set, su un’avventurosa sortita dalla linea di fondo, è stato calcolato intorno ai 140. Potrebbe bastare questo a spiegare l’andazzo della finale. Sarebbe sufficiente aggiungere che gli ace sono stati 17, per un conto finale di 54 in 49 turni di battuta dall’inizio del torneo.
Matteo non ha mai perso il suo servizio, e ha sempre vinto in due set. Numeri che la dicono lunga e spingono al sorriso, ma non danno ancora un quadro definitivo, e rischiano di far passare l’avversario spagnolo per uno che abbia preso randellate dall’inizio alla fine. Non è così. La finale è stata a lungo in equilibrio, ed è servita la “parte italiana” del gioco di Matteo, per fare la differenza. Valga un esempio: a estrarre Bautista Agut dai suoi alloggi, in quel tie break serrato che aveva visto i due procedere appaiati fino al 5 pari (e aveva concesso a Bautista Agut il primo set point, sotterrato con un doppio fallo), era stato un chiaro invito da parte di Berrettini, una palla centrale che sapeva di trappola, sulla quale lo spagnolo ha accettato di muovere in verticale, verso la rete.
Lì Matteo lo aspettava con due missili già in canna. Lo spagnolo ha cercato l’intercetto con la prima volée, e sulla replica si è visto passare da un proiettile avvelenato. Ha capito l’antifona, ha ringraziato in cuor suo di non essere sulla traiettoria di quella palla, e ha ceduto il primo set.
Non solo, nei momenti meno propizi della partita, due volte 0-30 nel primo set, una nel secondo, Matteo ha calibrato smorzate assai simili a ricami. Su di una, con doppio avvitamento carpiato, e rimbalzo a tornare indietro, c’è mancato poco che Bautista Agut si avvitasse nella rete. L’avrebbero dovuto ripescare e liberare, prima di rimetterlo in libertà. Il tutto a significare che Matteo ha saputo aggiungere qualcosa di suo a un match tutto servizi e dritti assassini, e lo ha fatto con l’inventiva spensierata di chi se lo può permettere. Ed è quella la parte più italiana del suo gioco, da conservare per tutti i momenti più difficili che arriveranno in futuro.
Coach Santopadre ha una convinzione. «È nato sulla terra, deve imparare a vincere sul suo elemento, ma vedrete che nei prossimi anni diventerà fortissimo sul cemento». Anche in questo Berrettini è in linea con i ragazzi della sua generazione. Intanto non rinuncia al doppio, «che ne affina le qualità nel gioco al volo», e vince anche lì, con Daniele Bracciali (che ha 40 anni, ed è stato fermo per due stagioni).
Prima doppietta, appena la terza in azzurro (le altre due sono di Panatta) da che il tennis è Open. Oggi la classifica del singolare consegnerà Berrettini al numero 54. Un anno fa vinceva il primo challenger, ora il primo Atp. La strada è quella giusta.
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