Quando ho incontrato Marco Cecchinato, poco più di un mese fa a Monaco di Baviera, mi sono trovato di fronte un ragazzo felice ma che allo stesso tempo appariva inquieto, a tratti quasi nervoso. Marco era atterrato nella città bavarese da poco, giusto in tempo per far valere la sua legge ai danni dell’amico Fognini, e si era quindi concesso per una breve chiacchierata a bordo campo. Quello che traspariva sin da subito, osservandolo, era una sensazione di disorientamento mista ad eccitazione, tipica di chi ancora non ha realizzato cosa gli sta accadendo attorno. Aveva ancora stampata sul viso la gioia per la vittoria del suo primo titolo ATP, quel famoso 250 di Budapest di cui negli ultimi giorni abbiamo letto spesso, e non riusciva a guardare oltre il proprio presente, come succede alle persone travolte da un’ondata di eventi e felicità che non sono ancora convinte di meritare appieno.
A pensarci oggi, sembra incredibile che da quel pomeriggio d’inizio maggio siano passati appena una trentina di giorni. In quel momento né io né tantomeno lui avevamo minimamente idea di quello che stava per accadere. Non potevamo immaginare che di lì a poco quel venticinquenne palermitano sarebbe entrato nell’olimpo del tennis mondiale, tra i 4 pretendenti al Roland Garros e con scalpi ben più importanti di quelli che si era portato a casa sinora, mentre bazzicava tra i Challenger in terra sparsi per il mondo.
Si può dire qualsiasi cosa per tentare di sminuire i contorni dell’impresa del Ceck, e tante effettivamente ne abbiamo lette o sentite: il circuito ATP attuale non è quello di qualche anno fa; in questa fase storica possono spuntare svariati Carneade (non si offenda Marco, si sentano piuttosto chiamati in causa i presunti addetti ai lavori – come Genie Bouchard – che non ne avevano mai sentito parlare); lo spicchio di tabellone in cui si è trovato è stato particolarmente favorevole; la vittoria contro Carreño-Busta poteva essere un’eccezione, Goffin era stanco per la maratona del giorno prima, Nole non è lo stesso di due anni fa. Alcune di queste considerazioni potrebbero anche trovare riscontro, ma ogni sportivo confermerà che nessuna di queste sarà mai sufficiente per vincere. In altre parole, Cecchinato è in semifinale esclusivamente per meriti propri. Per aver giocato un tennis costantemente di altissimo livello e variegato, per averci sempre creduto, e per non aver mollato mai (a buon intenditor…) nei momenti più bui. Momenti in cui sarebbe potuto bastare un ritorno caparbio dell’avversario o una serie di gratuiti consecutivi per insinuare il dubbio che il castello che lentamente aveva costruito gli stesse per crollare addosso.
La realtà ci dice invece che Marco Cecchinato – permetteteci un pizzico di prosopopea e campanilismo – ha davvero riscritto la storia del tennis italiano. Perché per quelli, come me, nati negli anni ’80 (quando il trionfo di Panatta e la semifinale di Barazzutti facevano oramai già parte del nostro passato glorioso), era ampiamente messa in conto la possibilità di non fare in tempo ad assistere a partite di questo tipo. Era preventivato, magari inconsciamente, di non riuscire a vedere un tennista azzurro protagonista reale in uno Slam, non solo a parole. Uno, insomma, al quale affidare davvero le nostre speranze e il nostro orgoglio italico.
E non è detto che l’opera di “revisione storica” sia terminata qui: perché è vero che Dominic Thiem sta giocando un tennis brillante ed è dopo Nadal il più grande specialista su terra rossa attualmente in circolazione, ed è vero che i bookmakers hanno già decretato l’uscita di scena di Cecchinato, facendone salire rapidamente le quote di accesso alla finale. Ma è anche, se non soprattutto, vero che Marco è in fiducia, supportato da una condizione psicofisica eccellente. E la verità, come ci spiega il Berlusconi mattatore dell’ultimo film di Sorrentino, è frutto del tono e della convinzione con cui la affermiamo. E allora, caro Ceck, è ancora tempo di crederci.
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