di Marco Girardini
In tutta la mia vita professionale ho sempre cercato di capire cosa facesse la differenza nei vari ambiti delle nostre esperienze. Stabilito che ormai tutti si allenano sfruttando le massime conoscenze e tecnologie, che tutti curano la loro preparazione nei più piccoli aspetti e che, in pratica, tutti hanno accesso alla “conoscenza”, cosa fa realmente la differenza? Si parla spesso di “talento” e “testa”. In cosa consistono questi due aspetti? Per soddisfare la mia curiosità ho letto parecchi libri e articoli. Due libri in particolare mi hanno suscitato interesse: “Fuoriclasse” di Malcon Gladwell e “Numero uno si diventa” di Anders Ericsson. Entrambi hanno voluto indagare su cosa fosse in realtà il talento, quanto questo incidesse nel diventare esperti di un’arte, e quale fosse eventualmente il percorso da intraprendere.
Entrambi, seppur con delle differenze, hanno evidenziato come il talento (o meglio, la “facilità di fare qualcosa e di farla bene”) non fosse altro che il risultato di un percorso iniziato in età molto precoce che ha permesso all’essere umano di affinare e specializzare delle abilità. Entrambi hanno poi teorizzato che il talento, da solo, non è sufficiente a diventare esperti di una disciplina. Occorre la pratica. Gladwell ha teorizzato le 10.000 ore di pratica, Ericsson ha specificato che la pratica deve essere non solo quantità ma qualità, e ha parlato di “pratica consapevole”. È quindi questo che fa la differenza? Una pratica costante continua precoce e consapevole? Quando vedo su internet fenomeni giovanissimi, come l’altro ieri quando ho visto una pianista di tre anni prodursi in performance stupefacenti, mi chiedo: come ha fatto un essere umano così giovane ad applicarsi in modo così assiduo e consapevole per raggiungere quel livello? Non è quindi la performance in sé a stupirmi ma quale tipo di impegno c’è stato dietro. Come ha fatto quel bambino a suonare tutti i giorni con tanta “consapevolezza” per poter raggiungere quel livello? I genitori, come evidenziato anche nel libro di Ericsson, hanno avuto un ruolo fondamentale. Sono spesso loro i veri artefici del successo di questi fenomeni. Come allenatore penso alla difficoltà quotidiana a motivare e a tenere alta la concentrazione dei nostri atleti: tutto questo costa un notevolissimo dispendio di energie fisiche e nervose. Io stesso che faccio questo mestiere da anni a volte mi chiedo se ne ho ancora. Un genitore spesso non ha né la voglia né le competenze per poter fare tutto questo, quindi a maggior ragione riservo tutta la mia ammirazione a chi lo fa, magari anche sbagliando.
Facendo un passo avanti, può esserci pratica costante, precoce e consapevole se non c’è attenzione, curiosità, passione? Secondo me no, quindi il vero grande merito dei genitori è stato quello di inculcare e coltivare quest ultimo aspetto.
Ritornando agli studi citati, entrambi affermano che il talento (o usando un’accezione più concreta “una pratica precoce consapevole e costante”) è fondamentale non tanto per il raggiungimento dell’obiettivo ma quanto al fatto che ogni “sistema” (sportivo, musicale, formativo in genere), specialmente ad alti livelli, è meritocratico. Le migliori opportunità di alzare il proprio livello, dunque, sono riservate ai migliori. Questi possono crescere ulteriormente perché hanno accesso, in quanto tale, a risorse e conoscenze che sono riservate a pochi. È un sistema selettivo che, in parecchi campi, inizia molto precocemente, tanto da uscire dal concetto comune di vita “normale”. Tutto questo è ancor più vero in quei campi, come il tennis, dove bisogna anzitutto disporre di una solida base economica per poter svolgere l’attività necessaria per mettersi in luce, sperando poi di poter eccellere e poter avere sostegni importanti. In termini più semplici: se io stesso fossi tra i migliori giovani al mondo allora potrei avere più facilità di ottenere le risorse finanziarie necessarie a continuare nella mia crescita. È fondamentale che tutto questo processo è inizi il prima possibile: in questo modo la forbice tra chi fa “una pratica precoce consapevole e costante” e gli altri si amplierà in modo esponenziale.
Se è importante iniziare da giovanissimi, è evidente che il ruolo dei genitori è fondamentale. Il merito del progetto, la messa in opera, la costanza e l’assiduità, la capacità di appassionare il bimbo-prodigio, è soltanto merito dei genitori. Nel tennis questa idea viene enfatizzata ancor di più. I genitori dei più grandi campioni del presente, in campo femminile ancor di più che nel maschile, hanno avuto un ruolo determinante nel successo dei propri figli.
Perché ho voluto scrivere questo articolo? Perché dopo la mia recente intervista in cui si parlava del rapporto tra Dayana e i suoi genitori una mia frase è stata, soprattutto da una certa parte di lettori, male interpretata, e ho piacere di fare chiarezza.
Alla domanda di cosa pensassi del rapporto tra genitori e figli e della presenza o meno al loro fianco ho risposto che sono assolutamente favorevole, perché parte integrante e fondamentale del progetto. E, di fronte alla soddisfazione generale del team, atleta genitori e coach, dopo aver vinto il primo turno delle quali di uno slam, alla domanda se mai ci fossero stati dei problemi, ho risposto che è normale averne nella carriera di un atleta che cresce coi genitori, l’importante è superarli. Il “nervosismo” che può esserci tra genitori e figli è dunque assolutamente normale se inserito nel percorso di cui parlavo prima. È responsabilità, compito e merito del genitore tenere il figlio concentrato. Tutto questo, nella crescita del rapporto dentro e fuori dal campo, porta inevitabilmente a degli squilibri, dei nervosismi che, però, vengono risolti. Così come è stato per Dayana. Il mio approccio al “problema” è che non lo considero tale. È una cosa “normale”, mentre per tanti, non addetti ai lavori specialmente, non solo è da evitare ma è addirittura sconveniente.
Se poi aggiungiamo che il modo di rapportarsi tra genitori e figli è diverso per educazione e cultura (non possiamo paragonare una famiglia dell ovest europeo a quella dell est) è chiaro che i comportamenti saranno assolutamente diversi. Le differenze tra est ed ovest non si fermano al solo diverso metodo educativo ma comprendono anche le famose opportunità economiche di cui parlavo sopra. Se un giovane tennista italiano o francese deve mettersi in luce in giovane età per accedere alle risorse economiche che la federazione italiana o francese mette a disposizione, un giovane tennista dell’est non ha le stesse possibilità perché la sua federazione spesso non ha le risorse necessarie. Per questo diventa ancor più importante essere tra i migliori già in giovane età: per trovare queste risorse in ambito privato e spesso battere la “concorrenza” dei coetanei sul mercato mondiale. Tutto questo causa inevitabilmente, di tanto in tanto, di qualche tensione: solo chi non è dentro le cose o è un ipocrita può sostenere il contrario. Gestire questa situazione non è sempre facile: siamo uomini dopo tutto. Coloro che si permettono di giudicare sulla base di una semplice questione poco conoscono del reale rapporto che esiste tra chi condivide quelle forti emozioni che spesso, nello sport come nella vita, avvicinano le persone invece di allontanarle.
Spero di avere fatto chiarezza. Il merito del successo di tanti ragazzi e ragazze, non solo in ambito sportivo, è soprattutto da ritrovare nei loro genitori. È chiaro che questa situazione col tempo evolve, le percentuali di merito possono cambiare e si inseriscono nuove figure importanti, ma le basi da cui tutto è nato sono sempre in quello che i genitori sono stati capaci di trasmettere. Il loro dovere, importante, è capire come questo rapporto si evolva e di adattarsi a nuove realtà ed esigenze. Se questo non avvenisse, allora si creerebbero ostacoli nella crescita formativa del figlio.
A parte i casi più estremi, specialmente in campo sportivo, personalmente ammiro quei genitori che hanno il coraggio di impegnarsi in prima persona per il successo dei propri figli, rinunciano anche a parecchio della loro vita privata. Spesso costoro subiscono critiche severe e ingiuste da parte di chi non conosce la situazione. Si conoscono quei genitori che forse, a volte (e spesso a fin di bene) esagerano. Non si conoscono invece, e stanno ben nascosti, quei genitori (tantissimi) che non hanno il coraggio di dare seguito ai sogni dei figli solo perché hanno paura di subire l’onta del fallimento.
Un ultimo pensiero per i genitori di Dayana e Dayana stessa. A loro voglio dire di non far caso a quello che pensano o dicono gli altri perché, prima di tutto, “non conoscono” le nostre situazioni e poi perché saranno i primi a congratularsi con loro dei successi di Dayana. A Dayana dico infine di portare sempre nel cuore tutto gli attimi in cui i suoi genitori le sono stati vicini, attimi che appartengono solo a loro. E che i successi che arriveranno sono soltanto suoi e della sua famiglia.
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