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Serena Williams, dalla crisi d’identità al sogno proibito

Sarebbe stato stupido pensare che si sarebbe fatta sfuggire un’occasione tanto ghiotta per vincere di nuovo, per archiviare definitivamente quell’improprio accostamento a Miss Dritto.
È vero, ci eravamo abituati sempre di più a questo suo status da “straniera”, dopo quel pomeriggio newyorkese con Roberta Vinci, la cessione della leadership, il Grande Slam mancato, eccetera eccetera.
A dire il vero, prima di conseguire il ventitreesimo Slam, Serena Williams si era resa protagonista di un’allarmante inizio di stagione, che aveva evidenziato alcune allarmanti falle nel suo tennis.
Sarebbe stato più semplice immaginare che non fosse mai scesa in campo, lasciando spazio ad un suo ologramma, più goffo, abbacchiato e che, chissà perché, quel pomeriggio in Nuova Zelanda, proprio non ne voleva sapere di spingere la sfera gialla oltre la rete.

Poi, d’improvviso, le steccate un po’ bruttine di Auckland vengono meno, e Serena si aggrappa a Melbourne per recuperare parte dell’armonia perduta, facendosi largo tra i primi e insidiosi turni che la vorrebbero già spacciata.
Come in un domino, tutti gli spauracchi che la insidiano cadono in fila, come inghiottiti da quel campo infuocato dall’estate australiana.
Esce dai giochi una Angelique Kerber ormai completamente stremata da una stagione che le poneva un conto salatissimo; subirà un importante ridimensionamento che, in vista di Roland Garros e Wimbledon, non può che destare ulteriore curiosità per la lotta alla leadership dei prossimi mesi.
Tramontavano anche le ambizioni di Karolina Pliskova, spente tutte d’un fiato dal coraggio di Mirjana Lucic-Baroni.
Il gioco della ceca, un power tennis con tutte le controindicazioni del caso, è quello che avrebbe potuto insidiare maggiormente lo status di Serena Williams, senza contare quanto bello sarebbe stato assistere alla rivincita della semifinale a stelle e strisce dell’anno scorso. Il congegno della Pliskova però, caratterizzato da un unico piano di gioco, è andato in tilt una volta messo sotto pressione dalla difesa della Lucic: ancora una volta ci è cascata nel rush finale di uno Slam, come già successole con la Kerber all’ultimo atto degli US Open 2016. È il tallone d’Achille della gemella, lo ha ammesso lei stessa; se riuscirà a porre rimedio a questo serio handicap potrà finalmente togliersi qualche preziosa soddisfazione.
L’altra uscita illustre riguardava Garbine Muguruza, che, nonostante conseguisse il suo miglior risultato di sempre in Australia, con Coco Vandeweghe metteva in scena una prestazione emblematica, rimarcando ancora una volta, non solo il modesto feeling con la terra dei canguri, ma anche l’ennesimo avvio di stagione al ralenti.
Con questi presupposti, Serena Williams ha potuto recuperare man mano i ferri del mestiere persi in battaglia, tornando nelle vesti della predatrice di un tempo: è riapparsa la rabbia, il pugno sferrato in aria, il servizio supersonico che le ha reso punti in massimo due, tre scambi. Insomma, tutti gli ingredienti a lei congeniali.
L’esito del torneo cambia completamente volto sotto i nostri occhi, ci troviamo come spinti dalla corrente di Serena, i pronostici azzardati nei primi giorni tramontano; gli stessi che , ammettiamolo, nei primi giorni ci avevano fatto divertire non poco con la fantasia.
Già, come dimenticare, manca ancora quel pezzetto di strada prima della fine del cammino, ma siamo convinti che Margaret Court potrà aspettare ancora un po’. Poi, inevitabilmente, anche questa fiamma si spegnerà, e l’interesse per un ruolo a sfondo sociale o politico si faranno sempre più spazio tra i progetti della stella afroamericana.
Potrà finalmente sistemare su un ripiano tutte le ventitré (o venticinque?) Coppe, togliere le medaglie olimpiche dai cassetti e inserirle in un’unica teca, tornare in Kenya, e forse, come dicono tra Los Angeles e New York, candidarsi alle prossime elezioni americane. Ma forse, per questo, sarà necessario attendere ancora un po’ di tennis. O forse, solo un altro Slam.

Aris Alpi

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Aris Alpi

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