È il cerchio che si chiude. Così, semplicemente. Federer ottiene il suo diciottesimo titolo, lo Slam che non sarebbe mai dovuto arrivare, sicuramente non qui, in Australia, a Melbourne. Con in campo l’amico – nemico che più ha contribuito alla sua carriera, in una spinta infinita verso l’altro, per entrambi. È il simbolo finale dei diciotto anni più belli del tennis. Diciotto è il numero pieno, rotondo, che finalmente viene consegnato alla storia. Probabilmente dopo questa partita, che non è stata la più bella tra i due ma forse quella con più significati in assoluto, niente sarà più lo stesso.
Federer è riuscito a rovesciare ancora una volta tutto quanto: luoghi comuni, certezze ormai acquisite, statistiche. Diversamente dal passato, però, è riuscito anche a rovesciare anche se stesso, quello che era stato fino a questo momento, almeno in un campo da tennis. È questa, forse, l’impresa più grande di Roger, in questo Australian Open. Al netto del resto, al netto di quello che è un miracolo, senza se e senza ma.
E come altro si potrebbe chiamare, uno slam vinto a 35 anni e mezzo, dopo sei mesi di assenza, da testa di serie numero 17 (a proposito: l’ultimo a riuscirci era stato Pete Sampras, a New York nel 2002), dopo quasi 5 anni dall’ultimo major conquistato (Wimbledon 2012), il più vecchio vincitore in uno dei quattro torneo più importanti dai tempi di Ken Rosewall (nel 1972). Tutte cose mostruose, uniche, ma non basta,
Quanto detto sopra non basta, davvero non basta, a far comprendere, a dare un significato a quanto abbiamo visto in queste due settimane, a quanto ci ha fatto vedere Federer in questi incredibili 14 giorni australiani. Abbiamo visto l’incredibile, inimmaginabile.
L’atmosfera tra i due era da resa dei conti. Forse non è stata l’ultima sfida, l’ultima ultima volta come hanno scritto qualche giorno fa gli amici di Tennispotting, ma era una partita che valeva tantissimo. Se Nadal avesse vinto oggi, si sarebbe avvicinato ai 17 slam di Federer, e con il Roland Garros alle porte, sarebbe stato un avvicinamento non da poco. A parte questo, c’era la storia del ritorno di entrambi, di quella parola, inimmaginabile, che entrambi più volte hanno ripetuto nei giorni scorsi. A qualcuno ha un po’ ricordato l’Agassi-Sampras a NY del 2001, la partita dei senza break: non come partita in sé, nello svolgimento, ma come atmosfera. Quando due grandi rivali, due pianeti di tale portata, si incontrano dopo tanto tempo, non si sa mai quello che può succedere. E nel quinto set si è ribaltato il mondo. Il Fedal non è stato più lo stesso, e forse non sarà più lo stesso.
Fino al 3-1 sembra stessa storia, stesso posto, stesso bar. Federer, dopo essere andato in vantaggio 2 set a 1, giocando molto bene (soprattutto di rovescio: straordinario, come forse mai nella sua carriera, con pochissimi slice, tra l’altro quasi sempre inefficaci contro Nadal), si scioglieva nel quarto. Rafa nel quinto brekkava subito, e si issava fino al 3 a 1. A quel punto tutti, compreso il sottoscritto, avrebbe firmato sul 6-2 o al massimo 6-3 a favore del maiorchino. Federer sembrava sulle gambe, e anche se Nadal non sembrava quello dei giorni migliori. Ma eravamo sempre sul 3-1. E sul 3-1, tutto è cambiato. Rafa ha sbagliato il colpo facile del 30-0, e la partita è girata. Federer ha fatto quello che avrebbe dovuto (e voluto) fare per tutta la sua carriera: ha alzato, contro il suo storico rivale, il livello del suo gioco in un quinto set, con lo straordinario, straordinario, straordinario punto sul 40-40 4-3, LO scambio da 26 colpi.
Ha lottato a mani nude, e stavolta ha vinto. Ha inanellato 5 (cinque) game di fila, facendo dei numeri incredibili. Questa volta ha guardato in faccia il nemico, e non ha avuto paura.
Finale a parte, è stato un Federer diverso per tutto il torneo. A parte i primi due turni, quello pre Berdych, dove tutti avevamo avuto l’impressione che il rientro, più che trionfale, poteva essere tragico, Roger ha avuto (per citare Rocky) gli occhi della Tigre. Non ha giocato in maniera diversa, era proprio diverso lui. Determinazione pura. Rabbia agonistica. Come un animale liberato dalla gabbia, in questo caso i sei mesi forzati di stop. E quel rovescio mai visto, quel sublime rovescio, utilizzato come mai nella sua carriera. Ha vinto tre partite al quinto set, e almeno due di queste (compresa la finale) in altri momenti probabilmente le avrebbe perse. Forse voleva dimostrare a tutti qualcosa, anche a se stesso. Non lo sapremo mai. O forse sì.
E ora? Non lo sappiamo. Nessuno lo sa. Nemmeno Federer, probabilmente. Ha salutato il pubblico australiano, non in maniera definitiva, ma certo è che queste frasi (“Se non dovessimo rivederci, è stato fantastico”) non le aveva mai usate. Paradossalmente, questa vittoria, questo slam numero 18, avvicina Federer alla fine della sua carriera. Perché forse, sui campi di Melbourne, ha dato tutto. Ha proprio dato tutto. E se anche il cerchio, questo benedetto e maledetto cerchio, si chiudesse qui, pazienza. Ne è valsa la pena. Infine, cari amici, appassionati di tennis, ricordate oggi dove eravate, quando è successo tutto questo. Tra qualche anno, ci penserete. Ridendo, con nostalgia e con un pizzico di tristezza. Magari con un bambino vicino, che vi chiederà: “Chi era Federer?”. E voi, orgogliosi, glielo racconterete. Partendo da qui.
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