Da Wilander a Kuerten, fino ad Ivanisevic: tutti i Leicester del tennis (che non vedremo più)

TENNIS – Di Enzo Cherici

Chiudete gli occhi per un attimo. Ora riapriteli. Vedete niente? Siamo sul Centre Court di Wimbledon e Bolelli sta alzando al cielo il trofeo sognato da ogni tennista, dopo aver sconfitto in cinque memorabili set l’incontrastato numero uno del mondo, nientemeno che Nole Djokovic!

Ora riapriteli per davvero gli occhi. Anzi, inizio io. Questa scena, con buona pace di tutti i pur apprezzabili Bolelli del mondo, non la vedremo mai. Proprio così, perché nel tennis moderno, rassegniamoci, non c’è spazio per le favole modello Leicester.

Sono troppo brusco? Mi dispiace, ma proprio non trovo altro modo – magari più soft – per esprimere questa desolante verità: le sorprese nel tennis odierno non sono consentite.

E, badate bene, non parlo di sorprese estemporanee, di giornata. Parlo di sorprese-sorprese, quelle vere. Modello Leicester, appunto.

Sorprese che in passato, ad esempio, ci sono state. Eccome. Penso ad esempio al Mats Wilander del Roland Garros 1982. Ricordate? Lo svedese non aveva ancora compiuto 18 anni, era stato campione del mondo juniores (come Quinzi, per dire) e batté uno dopo l’altro Lendl, Gerulaitis, Clerc e Vilas. Poi ne vinse altri 6 di titoli Slam e diventò anche numero uno del mondo, ma questa è un’altra storia.

Passano tre anni e a Wimbledon 1985 esplode il fenomeno Boris Becker. Anche lui, come Wilander, non ancora 18enne ma capace a forza di bum-bum, tuffi spettacolari e matchpoint annullati, di superare Nystrom, Mayotte, Leconte, Jarryd e Curren in finale. Si ripeterà l’anno dopo, ma quella non fu una sorpresa per nessuno.

Torniamo a Parigi e voliamo al 1989, l’anno di Michael Chang. Lui 17 anni li aveva appena compiuti (anche se ne dimostrava già una quarantina) e non si fece problemi a fare fuori Lendl in ottavi (aridaje!), Chesnokov in semifinale e Edberg in finale. Grande impresa, senza dubbio, ma a mio avviso un filino inferiore a quella di Wilander, visto che Michelino in quel torneo si presentava già come testa di serie numero 15.

Un caso-Leicester puro è a mio avviso quello relativo al primo successo di Gustavo Kuerten nel 1997. Guga si presenta ai blocchi da numero 66 del ranking. Non ricordo le quote dell’epoca (si scommetteva già?) e non credo che i bookies pagassero 5000 volte la posta, come per il Leicester. Ma di certo alla vigilia del torneo nemmeno la mamma di Guga, a Florianopolis, avrebbe puntato un real sul riccioluto brasileiro. Tabellone fortunato? Neanche per sogno. Nella sua strada per il titolo Guga ha dovuto eliminare, fra gli altri, Muster, Medvedev, il campione in carica Kafelnikov e in finale Bruguera. Tutto questo, giova ricordarlo, da numero 66 del mondo.

C’è stata poi la favola di Goran Ivanisevic a Wimbledon 2001. Il croato è numero 125 del mondo e non avrebbe neanche la classifica per entrare in tabellone. Poco male. Gli organizzatori, in omaggio alle sue tre finali, gli concedono una Wild Card. Il resto è storia. Goran per tutto il torneo serve come se non ci fosse un domani e supera uno dopo l’altro Moyà, Roddick, Rusedski, Safin, Henman e in finale Rafter, che con Rosewall è forse il più forte erbivoro a non aver mai vinto Wimbledon. Il successo di Ivanisevic fu una grossa sorpresa, enorme. Ma il parallelo con il Leicester si ferma qui. Goran aveva già giocato tre finali a Londra e aveva vinto altri titoli minori. Il Leicester non ha mai vinto nulla in 130 anni di storia.

Ultima grande sorpresa è forse quella dell’Australian Open 2002, quando vinse tra lo sbigottimento generale lo svedese Thomas Johansson. È un’edizione molto particolare. Il futuro vincitore porterà a casa il titolo incontrando sulla sua strada soltanto tre teste di serie: la 21, la 26 e la 9 in finale. Per sua fortuna quest’ultima testa di serie rispondeva al nome di Marat Safin (sempre sia lodato), che ad ogni match esibiva al suo angolo una o più safinette alla volta. In sintesi, il russo è mille volte più forte, ma diecimila più sciagurato. Il titolo vola in Svezia e sarà incredibilmente l’ultimo Slam vinto dalla prestigiosa scuola scandinava. 

Sono possibili storie simili nel tennis di oggi? No, non sono possibili. E bisogna dirselo senza false ipocrisie. Può uscire fuori la sorpresa di giornata, tipo il Djokovic che perde da Vesely a Monte Carlo. Ma poi il torneo lo vince Nadal, mica Seppi.

Oggi ci sono talmente poche speranze per i cosiddetti outsider che non riescono neanche a trovare la leggendaria settimana da sogno che gli consenta di vincere un Masters 1000. Figuriamoci uno Slam!

Una volta la terra era molto lenta e l’erba molto veloce. Oggigiorno la terra è troppo veloce e l’erba troppo lenta. Sì, sto proprio parlando del mitico omologamento delle superfici.

Prima uno specialista – terraiolo o erbivoro che fosse – se era forte e in stato di grazia vinceva. Oggi un giovane, anche bravo, che speranze ha di battere i vari Djokovic, Federer e Nadal (in rigoroso ordine alfabetico)?

Questo fattore, poi, si incrocia con un altro elemento molto importante: quello fisico/mentale. L’età media per i tennisti di alto livello si sta alzando sempre di più. Nella top 10 il più giovane ha 25 anni (Raonic). Nella top 100 ci sono 37 tennisti over 30 e soltanto 4 under 20. Le ragioni sono, appunto, di natura fisica e mentale. Il giovane dovrebbe essere più fresco, ma è paradossalmente meno preparato. Il resto delle differenza la fa la testa. Risultato, con i ritmi folli e la concentrazione necessaria per emergere nel tennis moderno, non c’è spazio per i Wilander e i Kuerten e vincono sempre gli stessi.

Qualche anno fa, ben sapendo che non sarebbe mai stato ascoltato, il sempre provocatoriamente lucido Gianni Clerici la buttò lì: torniamo alle racchette di legno. Soluzione inattuabile e fuori dal tempo. E quindi irrealizzabile. Come sono irrealizzabili le sorprese nel tennis che abbiamo (pardon: hanno) creato. Rassegniamoci, il modello Leicester in questo tennis non solo non è possibile: non è proprio ammesso.

 

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