TENNIS – Di Samuele Delpozzi
Quanto dista Sharm el-Sheikh da Melbourne? Parecchio, da un punto di vista prettamente geografico – 22 ore di volo transcontinentale. Molto di più in ambito tennistico, quasi appartenessero a galassie differenti: il vertice assoluto del nostro sport, rappresentato dagli Slam, opposto al livello più basso del professionismo, la giungla dei tornei futures.
Mondi lontanissimi che talvolta si sovrappongono, come accaduto la scorsa domenica: mentre Serena Williams scriveva l’ennesimo capitolo della sua epopea ormai leggendaria, il minuscolo ITF egiziano – 10 mila dollari di montepremi, meno di un terzo di quanto percepito per un primo turno nello Slam australe – ha visto riannodarsi i fili della carriera interrotta di Anastasija Sevastova.
Già, Sevastova: chi era costei? Allo stato attuale, un nome virtualmente sconosciuto al grande pubblico, una carneade qualsiasi. Eppure, non molto tempo addietro – è sufficiente riavvolgere il nastro di nemmeno un lustro – la carta della lettone era nel mazzo delle giovani più interessanti e futuribili.
Certo, probabilmente non quanto le coetanee più strombazzate (e vincenti, va detto) quali Azarenka, Wozniacki o Radwanska, ma comunque in grado di finire nel mirino degli addetti ai lavori, sia per i risultati che per lo stile di gioco anticonvenzionale.
Nata il 13 aprile 1990 a Liepaja, città portuale nei pressi del confine lituano, la piccola Nastja scopre il tennis da bambina grazie alla passione della nonna, e fin qui nessuna anomalia. Tuttavia, al contrario di molte predestinate, per lungo tempo confina la racchetta a semplice hobby, puro divertimento: solo a 15 anni, incoraggiata dalle numerose vittorie a livello locale, decide d’investire fatica e risorse monetarie nel sogno del professionismo.
Nonostante il cambio di prospettiva, non muta l’approccio rilassato e spontaneo della Sevastova, in campo come nella vita. Lontanissima dalle eccentricità bizzose di un Gulbis – compatriota altrettanto talentuoso ma ben più noto alle cronache, nel bene e nel male – la nostra ricorda semmai un Mecir in gonnella, tanto nel temperamento quanto nella facilità di gioco, puntellato da un rovescio bimane di rara fluidità. Non pesce veloce del Baltico, dunque, ma semmai moderna Gattona: rotondetta e non esattamente atletica, sorniona nelle movenze al limite dell’indolenza, e tuttavia capace di dispensare gioielli di altissima precisione e raffinatezza. Non di rado in maniera inattesa, proprio come il vecchio Miloslav.
Saltata quasi integralmente la trafila giovanile – appena 14 match disputati – la meglio gioventù di Lettonia decide di perfezionarsi nella vecchia Mitteleuropa: Ernests alla corte di Nikki Pilic a Monaco, Nastja invece a Vienna, affidata alle cure di Martin Ruthner.
Seppur a ritmi più umani rispetto alle bambine prodigio, i progressi arrivano costanti: nel 2009 assaggia finalmente il circuito maggiore, ritagliandosi uno spazio di tutto rispetto – debutto tra le 100 ed ingresso nei tabelloni principali di tutti gli Slam, tranne Melbourne. L’anno successivo, appena ventenne, festeggia il primo titolo WTA sul rosso di Estoril e due scalpi top-10, Jankovic e Stosur. Sulle ali dell’entusiasmo, a gennaio 2011 approda alla seconda settimana dell’Australian Open, fermata solo dalla numero 1 mondiale, Caroline Wozniacki, al termine di un incontro piuttosto equilibrato – un exploit che la proietta al best ranking in singolare, alla 36° piazza.
Preludio di una brillante carriera? Così sembrava all’epoca, inconsapevoli – noi e lei – che invece ne fosse appena stato toccato lo zenith.
L’ultimo quadriennio è infatti una lunga discesa agli inferi per la lettone, tormentata dai primi scricchiolii fisici – costretta a cancellarsi da decine di tornei per traumi di varia natura, dal piede alla caviglia – culminati poi nell’operazione al gomito destro che la tiene fuori fino ad aprile 2012.
Ripartita da una classifica deficitaria, vicino alla trecentesima posizione, riguadagna fiducia con un paio di titoli ITF e qualche buon risultato anche a livello WTA, ma si tratta del proverbiale canto del cigno: a Miami, proprio nella settimana che ne sancisce il rientro tra le prime 150, la Sevastova annuncia il ritiro delle competizioni, sconfitta da un eccesso di infortuni a 23 anni non ancora compiuti.
Il tennis femminile, però, ci ha abituati ad abbandoni drammatici ed altrettanto clamorosi ritorni, una volta smaltiti i postumi del burnout: volendo tacere della Seles – la cui vicenda travalica tristemente i confini del campo da gioco – possiamo citare Capriati, Clijsters, Henin, Hingis e, seppur a livelli inferiori, anche Romina Oprandi, tennista con cui la Anastasija condivide molte peculiarità, dalla creatività delle trame alla fragilità articolare.
Alla luce di precedenti tanto illustri, sorprende relativamente l’improvvisa ricomparsa della nostra, beneficiaria di una wild card a Sharm el-Sheikh a quasi due anni di distanza dall’ultimo match ufficiale. Un ritorno che si può definire in grande stile: la tennista baltica ha infatti conquistato sia il titolo di singolare, senza smarrire neppure un set, sia quello di doppio, in coppia con l’austriaca Melanie Klaffner.
E pazienza se la concorrenza non era delle più ostiche – la vittima meglio classificata, la greca Papamichail, è attualmente numero 340 – ed il prize money a malapena sufficiente a coprire i costi della trasferta. L’importante era ripartire, con la consapevolezza di poter ancora scrivere i capitoli più belli della carriera: la sua “gemella” Oprandi c’è riuscita, risorta dalle ceneri al best ranking proprio durante la seconda vita agonistica.
A neppure 25 anni, se gli infortuni questa volta permetteranno, Nastja ha ancora moltissimo tennis nelle corde della racchetta. La trentatreenne Serena insegna, e forse Melbourne non è poi così lontana.
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