di SALVATORE SODANO Queste grandi competizioni internazionali a squadre al femminile, la prima fondata nel 1923 come “Wightman Cup”, equivalente della “Coppa Davis”, con nuovi format e denominazioni, si disputano da oltre un secolo. La prima, che prendeva la denominazione dal nome della grande signora del tennis americano Hazel Wightman, fu disputata sin dal 1923 […]
TENNIS – Di Piero Vassallo – A Delray Beach, Donald Young ha raggiunto la seconda finale ATP di una carriera fin qui ben al di sotto delle aspettative iniziali. La parabola di un ragazzo schiacciato dalle pressioni insostenibili di una nazione che lo aveva già eletto nuovo fenomeno del tennis a stelle e strisce.
“Sto lavorando duro e sento che il mio momento sta per arrivare”. Parole di Donald Young, pronunciate subito dopo la vittoria contro Alexandr Dolgopolov nei quarti del torneo di Delray Beach, successo che gli ha permesso di bissare la semifinale di Memphis di sette giorni prima. Due semifinali di fila nei tornei ATP non le aveva mai giocate, eppure in tanti erano pronti a scommettere che quel ragazzino di colore nato a Chicago nel 1989 da papà Donald e mamma Ilona, sarebbe stato in grado di raccogliere l’eredità dei più grandi tennisti americani. Sotto l’attenta guida dei genitori, entrambi ex professionisti, Donald inizia a muovere i primi massi tennistici ad Atlanta, città dove vive tutt’oggi, presso il South Fulton Tennis Center e basta poco per capire che c’è del talento non indifferente in quel bambino mancino.
E Young ce la mette tutta per dare credito alle prime voci che lo danno per predestinato: nel 2003 vince l’Orange Bowl per la categoria under 16, l’anno dopo raggiunge la finale nella categoria under 18 e il Newsweek Magazine lo etichetta come grande promessa del futuro nella rubrica “Who’s next?”. Il 2005 però è ancora più roboante: vince l’Australian Open Junior diventando il più giovane a riuscirci (record che sarà battuto da Tomic nel 2008) e chiude la stagione da numero 1 del circuito giovanile, battendo anche qui tutti i record di precocità. Gli Stati Uniti, con Agassi agli sgoccioli e il solo Roddick a garantire risultati di spessore, sono convinti di aver trovato il campione del futuro e senza pensarci due volte lo sommergono di wild card, invitandolo ai tornei di San Josè, Scottsdale, Indian Wells, Miami, Houston, Indianapolis e ovviamente allo US Open. Col senno di poi, una scelta scellerata: a soli 15 anni Young non è pronto né sul piano fisico né su quello mentale e i risultati sono ovviamente deludenti; non solo non vince una partita, ma non riesce nemmeno ad aggiudicarsi un set.
La sensazione però è che sia soltanto questione di tempo e il 2007 sembra avvalorare questa ipotesi: vince il torneo Juniores a Wimbledon e inizia ad ingranare anche tra i grandi, viene convocato per il quarto di finale di Coppa Davis contro la Spagna, si aggiudica il Challenger di Aptos che gli vale una wild card per lo US Open e sfrutta al meglio l’occasione, raggiungendo il terzo turno battendo Chris Guccione all’esordio e approfittando del forfait di Gasquet, prima di arrendersi a Feliciano Lopez dopo un match giocato alla pari. Con la finale nel challenger di Champaign entra per la prima volta nei top 100, sembra l’inizio della grande scalata, ma è solo una breve illusione. Nel 2008 vince pochissime partite a livello ATP e inizia un periodo nero che lo farà sprofondare nuovamente nell’anonimato per oltre due anni, inizia a profilarsi lo spettro di clamoroso buco nell’acqua e anche la federazione americana decide di snobbarlo e di non concedergli più wild card.
Proprio quando i riflettori su di lui sembrano spegnersi definitivamente eccolo destarsi dal torpore: costretto a giocare le qualificazioni sembra ritrovare la vitalità e il tennis degli inizi, nel 2011 si qualifica per il Masters 1000 di Indian Wells e raggiunge il terzo turno battendo nientemeno che Andy Murray, ottiene buoni risultati nei tornei Challenger, arriva in semifinale a Washington e riaccende l’entusiasmo del pubblico americano grazie ad uno splendido US Open in cui raggiunge gli ottavi di finale. Un mese dopo gioca la sua prima finale ATP a Bangkok e chiude l’anno da numero 39 della classifica.
Di scendere dall’ottovolante però Donald non vuole proprio saperne e così alla stagione migliore della carriera segue la più disastrosa: nel 2012 mette a referto un bilancio a dir poco fallimentare con appena 5 vittorie e 24 sconfitte nel circuito maggiore, ma soprattutto dà vita a una striscia di 17 sconfitte consecutive. Torna a vincere in pieno agosto, a sei mesi di distanza dall’ultima volta, la sua classifica è nuovamente deficitaria, così torna a concentrarsi sul circuito Challenger e risale nuovamente chiudendo il 2014 nei primi 60 del mondo.
Oggi è numero 45, vicino al best ranking di qualche anno fa, ha perso la seconda finale della sua carriera ma sente che forse qualcosa sta cambiando. Non sarà mai ciò che prometteva di essere, ma a 25 anni c’è ancora tempo per riscattare una carriera ad oggi mediocre, magari per dimostrare che i risultati da Juniores non erano solo fumo negli occhi. E Magari c’è tempo per vincere un match a Wimbledon: dopo aver sollevato il trofeo dei giovani nel 2007 ha raccolto solo sconfitte, con buona pace di chi già lo sognava come un nuovo Arthur Ashe.