TENNIS – ROLAND GARROS – DI RICCARDO NUZIALE – Nel giorno della sconfitta di Serena e Venus Williams, la 18enne Taylor Townsend domina e disfa continuamente la sua partita contro la beniamina di casa Alizé Cornet, al debutto in carriera sul Lenglen. Vince 64 46 64, dimostrando ancora una volta il suo tennis spettacolare e la sua sorprendente maturità.
So perché l’uccello in gabbia canta
Quando la sua ala è ferita e il suo petto dolorante
Quando picchia contro le sue sbarre e vorrebbe esser libero
Non è un canto di gioia o di soddisfazione
Ma una preghiera che manda dal profondo del suo cuore
Ma una supplica che lancia lassù in Paradiso
So perché l’uccello in gabbia canta!
Taylor Townsend le sfide per la libertà le conosce. E’ diversa, da sempre. E’ nera, innanzitutto, in un Paese (e in un mondo) dove il colore della pelle purtroppo gerarchizza ancora in modo estremo e incomprensibile. Ha poi scelto il professionismo sportivo pur non avendo il fisico da atleta. E’ grassa, dicono. E non solo gli appassionati malevoli, ma anche quella stessa federazione, l’USTA, che dovrebbe proteggerla: nel 2012 la sua controversa esclusione dagli US Open junior per “preoccupazione per la sua salute” ha fatto storia.
Per fortuna acqua passata ormai, ma è uno dei motivi per cui Zina Garrison, sua allenatrice dallo scorso settembre, ha deciso di prenderla sotto la sua guida. In lei ha visto qualcosa, una ferita di grandezza. Nel passato della Garrison c’è stato un nemico chiamato bulimia. In Taylor ha visto qualcosa di sé stessa e questo è stato uno dei motivi per cui l’ha voluta conoscere: “Non volevo che passasse dei problemi che io ho avuto, e sembrava che stesse prendendo quella strada,” ha rivelato la Garrison, che ora si sente più in pace con sé stessa e con il suo corpo. “Sono sovrappeso, ma mi sento molto a mio agio con me stessa. La gente ha la tendenza a far finta di non sapere di che stai parlando a causa dei tuoi problemi. Ho fatto un buon lavoro nel far capire a Taylor che deve sentirsi a proprio agio con il proprio io.”
Taylor è diversa perché gioca un tennis diverso: serve and volley, attacchi in controtempo, dritti che vivono di religione propria. Un tennis che quasi non si vede più. Ma lei ha come amore tennistico Martina Navratilova, la sua superficie prediletta l’erba. Vuole giocare così, checché ne dicano gli altri. Parlano i risultati: n.1 junior, quattro Slam junior tra singolare e doppio.
E’ arrivata oggi a giocare sul Suzanne Lenglen per la prima volta dopo aver combattuto per la libertà. Ferocemente. Anche quando tutto sembrava perduto. Come nella semifinale del torneo di Harbour Beach contro Anett Kontaveit. Una semifinale che doveva assolutamente vincere, per trionfare nella serie di tornei USTA che metteva in palio una wild card per il Roland Garros. Una semifinale che invece è stata a un passo dal perdere, sotto 3-6 3-5 15-40. Recuperò. Sul 4-5 e sul 5-6 dovette rispondere costretta a strappare il servizio per rimanere in partita. Recuperò. Nel tie-break del secondo set andò sotto 1-3. Recuperò. Giocando a livelli molto lontani dai suoi massimi, ma la giovane Taylor (ha compiuto lo scorso mese 18 anni) non è solo un prodigio con la racchetta. Lo è anche con la testa. Con la ferocia di non volersi arrendere mai. Quella partita la vinse, facendo sua la wild card e con essa l’ingresso al primo main draw Slam in carriera.
Poteva finire tutto lì, la soddisfazione sarebbe già stata enorme. Contro la connazionale e più esperta Vania King, sull’anonimo campo 16, è andata sotto 1-5 e set point. Anche lì, tanta tensione e nervosismo, poco di quel tennis spettacolare che è in grado di sprigionare. Poteva finire tutto lì. E invece no. Recuperò. Uno, due, tre…dodici game a uno. 7-5 6-1. Prima vittoria Slam, il 26 maggio 2014. Il 26 maggio 1956 Althea Gibson divenne la prima giocatrice nera della storia del tennis a vincere un titolo dello Slam. Qualche sprovveduto le chiamerà coincidenze.
Poteva finire tutto lì. Suzanne Lenglen. In programma dopo il suo idolo, Roger Federer. Dopo Serena Williams, il suo schiacciante punto di riferimento. Lei e Venus lo sono per qualsiasi giocatrice afroamericana, è ovvio. Poteva finire tutto lì, sarebbe stato comunque magnifico.
Qualche sprovveduto le chiamerà coincidenze: sia Serena e Venus perdono malamente, altro che sister act al terzo turno. L’America nera è in ginocchio. Certo, Sloane Stephens ha vinto ieri, ma è chiaro che qualsiasi sconfitta così prematura delle Williams è terremoto, figurarsi se Serena viene schiaffeggiata senza reagire da Garbine Muguruza.
Taylor Townsend scende in campo su uno dei campi più importanti del mondo contro la Francia. E per risollevare il proprio Paese, la propria pelle e l’orgoglio della sua gente. Affronta un altro (ormai ex) enfant prodige, Alizé Cornet, che proprio 10 anni fa faceva il suo esordio nello Slam di casa, a 14 anni, nel torneo junior.
Un peso enorme, sulle spalle della giovane statunitense, ma nessuno se ne accorge. Tantomeno la Cornet, che nonostante lo spudorato sostegno del pubblico è spesso costretta a mangiare terra rossa, travolta dagli angoli fulminei che il sublime dritto della Townsend trova. In qualche modo, nel primo set, la francese rimane a galla, annullando tre palle del 5-2 e servizio e attuando nel game dopo il controbreak, ringraziando i due doppi falli e gli altrettanti gratuiti della sua avversaria. Che però, come una veterana, cancella subito la pessima memoria a breve termine e torna subito in vantaggio, chiudendo il primo set.
Fa di meglio nel secondo, dove sale addirittura 4-1 e servizio, nonostante i disperati tentativi della Cornet di rimanere in vita, come la splendida stop-volley di rovescio ad annullare una palla break nel quinto gioco. Niente da fare: il gioco offensivo dell’americana è implacabile, perfetto.
4-1 30-0. Sembra ormai finita. Ma ancora una volta il tennis ha voluto ricordare come sia psicologicamente il più subdolo e complesso degli sport. Quelle decine di microcosmi quali sono i quindici, tutti apparentemente uguali, tutti di una democrazia oligarchica. Doppio fallo, vincente Cornet, doppio fallo, dritto fuori di metri. E’ solo un game, ma chiunque abbia visto un po’ di tennis (soprattutto femminile) sa che è l’inizio di una nuova partita. Quella maledetta inerzia che cambia in un attimo, che prima ti dava il dono di trovare vincenti con disarmante facilità e che ora irrigidisce braccio e mente, affossandoti in una caterva di errori orrori.
La Townsend rivive il primo set con la King, ma al contrario. Cinque game di fila, sempre meno giocati. Sembra tutto finito: chiunque abbia visto un po’ di tennis sa che quasi sempre lo scampato pericolo della giocatrice favorita significa vittoria tranquilla per quest’ultima.
E invece no. A inizio terzo set la Townsend torna ad abbracciare la perfezione, a ridicolizzare ogni tentativo di controffensiva della Cornet. Nemmeno il controbreak sul 3-0 la spaventa, si riprende subito il doppio vantaggio.
4-1 30-0. Di nuovo. Sembra ormai finita. Di nuovo. E doppio fallo per il 30-15. Di nuovo. Gocce di sudore: sembra ripetersi tutto. Ma la giovane si ribella con la classe, caricando di rovescio e andando a rete in controtempo, chiudendo con una stop volley c
he sa di liberazione. L’uccello che picchia contro le proprie sbarre.
Una libertà che sul 5-1 0-40 sembra davvero realtà. Al primo match point spara una risposta vincente lungolinea che la illude per un secondo. Ma per pochi centimetri il colpo non ha trovato la riga. 4 match point andati. 5-2. Serve per il match, ma anche stavolta l’occhio di un appassionato esperto annusa il dramma. Nei due game successivi la Townsend fa un punto. Va a servire per il match per la seconda volta, ma più che una porta per la libertà, è un muro con decine di soldati con il fucile puntato. A quel punto solo le giocatrici vere, dopo aver fatto e disfatto per oltre due ore di gioco ritrovandosi con un mucchio di mosche velenose in mano, possono trovare la soluzione. La quasi totalità delle giocatrici annega nella sua incapacità di ammazzare le proprie paure. In qualche modo ce la fa. Soffrendo, ma non concedendo vere chance all’avversaria. Sulla palla in rete di quest’ultima, Taylor Townsend alza le braccia al cielo. Serena e Venus tornano a casa, lei va avanti (contro Carla Suarez Navarro, per la cronaca).
E libertà sia. Che celebriamo con un cancelletto, con delle sbarre. Sbarre di libertà? Sì. Sono quelle che offre Andy Murray, che ancora una volta ha dimostrato di avere raffinatissimi gusti tennistici. Durante l’incontro, il campione scozzese ha infatti scritto con enfasi su Twitter: “Quant’è brava Taylor Townsend!”.
Terminando il tweet, il cinguettio dell’uccello libero, con un cancelletto e una parola.
#talent
p.s. i versi iniziali appartengono alla terza strofa di “Sympathy” di Paul Laurence Dunbar, resi famosi in quanto scelti per il titolo della sua autobiografia giovanile “I Know Why the Caged Bird Sings” (da noi tradotto come “Il Canto del Silenzio”) da Maya Angelou, poetessa e simbolo dei diritti civili e dell’orgoglio nero, morta oggi a 86 anni. Anche qui, qualche sprovveduto parlerà di coincidenze.
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