Federer, un campione drammatico come piace a noi

TENNIS – ROLAND GARROS – Di ROSSANA CAPOBIANCO – L’uscita di Roger Federer agli ottavi del Roland Garros, come al solito ha scatenato tante parole: un campione per il quale piace usare la parola dramma, ma che come noi ama il dramma, altra faccia della sua creatività. Cosa è accaduto a Roger e cosa accadrà? 

 

C’è un’affinità particolare che accomuna chi scrive di tennis a Roger Federer. Una molto umana, una che lega chi non si accontenta del quotidiano andare e di registrare avvenimenti, una che è il motore della fantasia umana: l’amore per il dramma.

Chi scrive ne ha bisogno, perché creare una storia drammatica su basi reali o possibili è quanto di più soddisfacente ci sia per chi fa questo mestiere, inutile nasconderlo.

Anche Roger Federer ne ha bisogno. Ne ha bisogno perché sebbene sia una persona estremamente abitudinaria, metodica, un professionista che segue schemi inossidabili e precisi, la parte che lo porta e lo ha sempre portato all’estro tennistico in campo ha un rovescio della medaglia che è la croce; chi pensa, chi immagina, chi crea in definitiva si complica le cose.

No, non stiamo certamente giustificando l’ultima sconfitta di Federer contro Gulbis con questa teoria psicologica ed introspettiva; ma che sia una parte responsabile di regali simili a quelli di domenica sullo Chatrier, è indubbio. Lo svizzero, d’altronde, non lo ha mai nascosto: «I’m an emotional player». Ha spesso svelato di essersi fatto dei veri film nella testa, come quello della finale in Australia nel 2010, dopo una palla corta di dritto sul match point recuperata da Andy Murray, che annullò la palla del sedicesimo Slam di Roger, poi vinto in quello stesso tie-break: «Quando ho visto Andy recuperare quella palla ho pensato a che sciocchezza avessi fatto; ero avanti di due set ma ho proprio immaginato di vedere lui portarsi via la coppa dalle mie mani venendo da questa parte della rete».

Roger, un vincente pieno di paranoie. Non sempre e solo negative ma presenti, anche nelle vittorie.

Federer contro Gulbis (ma anche contro Tursunov due giorni prima) non ha sentito il rovescio in campo; a sottolinearlo anche il diversamente attento lettone, che dice di aver approfittato di ciò. Non lo ha sentito in nessun modo: risposta, slice, top, incrociato, lungolinea. Niente da fare. Ma non è la sola cosa: non ha servito bene, non ha mai fatto le scelte giuste.

Tutto potrebbe avere una spiegazione chiara in quello che è stato evidente: Federer era spento. Nella testa, proprio. E’ entrato in partita così ed è andato avanti di inerzia. E in queste condizioni mentali non c’è spazio per il cinismo e la cattiveria di un game da chiudere, di uno smash da piazzare meglio, di saggezza tattica. Quando la partita si è complicata, non è riuscito ad alzare il livello, come se si fosse sorpreso di quanto stesse accadendo, appena svegliato da un sonno profondo fatto di abitudine a quello che ama più fare. E a quel punto l’ha vinta Gulbis, di furbizia e di cattiveria. E di colpi, pesantissimi.

E’ già capitato in questa stagione a Federer: a Montecarlo contro Wawrinka, a Indian Wells contro Nishikori. Il resto, sono sconfitte (poche) che ci stanno. Ma queste per lo svizzero devono essere veri e propri campanelli d’allarme: il suo obiettivo non era certo il Roland Garros (e gli allenamenti con Edberg ai quali ho avuto la fortuna di assistere a Parigi lo confermano, schemi d’attacco e posizionamento a rete, risposte aggressive, chip & charge, chiaro “focus” su altre superfici), ma l’interruttore a quasi 33 anni non scatta così facilmente vedendo di nuovo verde. Non è automatico.

 

La faccia di Roger in conferenza stampa, arrabbiata e delusa, è un buon segno: a rendersi conto che gli importasse di questa partita e di questo torneo ci ha messo troppo, però. Forse quando arrivi da un mese pieno di emozioni incredibili per altri personali motivi è abbastanza prevedibile; tuttavia, quella faccia, quelle parole dimostrano quanto ancora il tennis conti per lui.

Chi parla di ritiro, chi parla di ultimi tornei e di demotivazione evidentemente non ha guardato i primi cinque mesi di Federer in questa stagione. Oppure, come tutti noi, ama troppo il dramma da creare.

A Wimbledon ci faremo una domanda e avremo una risposta: no, non sulla competitività di Roger, quella l’ha dimostrata fino a pochissimo tempo fa, pure nel Principato. 

Paul Annacone ha sempre parlato di una linea sottile che divide il volere qualcosa dal volerla davvero troppo. Da quale parte della linea sia Federer, lo sapremo prestissimo.

 

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