L’urlo di Berrettini spaventa i big di Wimbledon

Esserci ancora, attendere un ottavo di finale contro il numero uno Alcaraz, prepararlo sapendo di aver dato tutto ed essere stato in grado, ancora una volta, di tornare protagonista

L’urlo di Matteo sale lassù, dove le correnti d’aria posso spingerlo ovunque. Chissà se l’hanno sentito anche a Londra… Battere Zverev è l’impresa di giornata. Esserci ancora, attendere un ottavo di finale contro il numero uno Alcaraz, prepararlo sapendo di aver dato tutto ed essere stato in grado, ancora una volta, di tornare protagonista, era un obiettivo che fino a pochi giorni fa, nemmeno rientrava tra le cose possibili. Era un sogno.

Matteo Berrettini l’ha preso tra le sue mani, l’ha modellato, e gli ha dato un volto reale. Come un artista con una scultura. Ora il sogno è una bellissima realtà, che fa scattare in piedi il pubblico del Numero Uno. Sono tutti per lui, anche quelli che nel corso del match avevano preferito Sascha Zverev. Ma Berrettini se l’è meritato. Ha dato vita a un match straordinario. Da erbivoro vero. Ora può davvero giocarsela anche contro Alcaraz.

Condividono poche cose, Matteo e Sascha. Ma lo spirito della lungodegenza avvicina anche chi, per educazione e carattere, potrebbe sentirsi agli antipodi. C’è la voglia comune di tornare se stessi, di riconquistare il tempo perduto, e l’orgoglio di chi si è sentito ostaggio della malasorte, e non ha intenzione di dargliela vinta. Da quel terribile infortunio alla caviglia, subìto nella semifinale del Roland Garros della scorsa stagione, quando sembrava aver preso le misure a Nadal, Zverev è tornato a muovere i primi passi tennistici a gennaio di quest’anno. Pesanti. Incerti. La classifica gli è scivolata di mano giorno per giorno. Si è fermata al numero 27, prima di tornare a salire. Ora è al numero 21, grazie a tre semifinali che sono sembrate tre squilli nello spartito di una stagione monocorde. Ginevra. Roland Garros. Halle…

Non è andata meglio a Matteo. La stagione voodoo, la chiama, chissà se davvero convinto che qualcuno si sia esercitato con riti, spilloni e pupazzi di stoffa. Non è da escludere viste le carambole continue della sfiga tra problemi agli addominali e ricadute a dir poco tetre sull’animo suo. «Ho trascorso intere giornate a chiedermi se ne valesse ancora la pena», ha raccontato dopo aver ritrovato la sua cara erba dei Championships, che gli ha restituito l’adrenalina che cercava e «la felicità di sentirmela scorrere dentro».

Non è dato sapere, piuttosto, se i due condividono anche la polemica di marca tutta tedesca sulle cinque giornate in campo che li hanno accomunati, obbligandoli a non avere turni di sosta là dove ad altri, già saliti fino agli ottavi, è stata data la possibilità di gestire il loro torneo con le consuete pause. Perché spedirli a giocare su un campo laterale nella giornata che si sapeva sarebbe stata ostaggio della pioggia? Per dare il Centre Court a una giovane wild card inglese, classificata intorno al numero 500?

Alla fine, sotto a un tetto i due si sono ritrovati ieri, e ciò nonostante l’incontro è stato sospeso per quasi cinquanta minuti. Misteri inglesi. Hanno la copertura ma aspettano che piova a dirotto per utilizzarla. L’erba s’inzacchera e per asciugarla servono tempi lunghi. Si era sul finire del secondo set, situazione abbastanza scabrosa per Zverev al servizio, 5 pari, 30 pari. Rientrare e dover battere per salvare la ghirba non è facile per nessuno. Tanto più che il tedesco, fin lì, non era stato in grado di costruire un buon tennis. Un po’ le bordate di Berretto, un po’ la superficie che non l’ha visto mai brillare. Invece lì è stato bravo Sascha, due buone prime hanno risolto la situazione e il set si è incanalato verso il tie break. Qui Matteo ha calato uno dei gioielli della sua prova, un “jeu decisif” giocato senza commettere un errore e senza concedere un solo mini-break. Chiuso con un ace, il quinto del set. A Zverev è sfuggito un solo punto, e l’ha pagato carissimo.

Altri gioielli, sparsi qua e là, avevano dato forma al primo set, che Matteo aveva infilato nella sua sporta senza dare l’impressione di soffrire più che tanto. Smorzata e pallonetto al volo sul recupero affannato del tedesco, tanto per dire… Poi il passante in back, che prende in controtempo Sascha e gli spegne la voglia di reagire. E sempre, un grande controllo sui colpi importanti, sui servizi che non hanno concesso granché a Sascha, e sui dritti che tenevano a bada la parte migliore del gioco di Zverev, quasi sempre calibrata attorno al suo bel rovescio. Break sul 4-3 per Matteo, poi la chiusura al nono game.

Bel tennis da erba. Come nei precedenti due incontri. Ne avevo parlato rapidamente con coach Santopadre, prima del match, chiedendogli quasi per scherzo che diamine gli avesse fatto a Matteo per rimetterlo così in tiro. «L’erba contribuisce, perché lui vi si trova a proprio agio», mi ha risposto, con la consueta cautela, «ma non credere, il percorso è ancora lungo, ci sarà da lavorare moltissimo».

C’è tempo per l’ultimo gioiello. L’occasione buona arriva, sul tracciato del primo set, nell’ottavo game, avanti Matteo 4-3. Tre palle break, poi una quarta. Ma Zverev è bravo, s’impegna, non commette più errori e si trae in salvo. Matteo assorbe il colpo e ci riprova nel secondo tie break di giornata. Si porta avanti con due mini-break e arriva a 6-3 con tre match point a disposizione. Il gioiello è sul terzo, di una lucentezza sfolgorante. Ace, il quindicesimo, laterale. Da oggi si pensa ad Alcaraz.

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