Mette i brividi questo nuovo tennis a perdifiato. Trascina con le sue repliche veementi e nervose, che ne fanno l’ossatura del confronto. Eccita per gli scambi serrati che hanno il ritmo duro del rock di città, e non si sa mai quali pieghe stiano per prendere, né a chi si affideranno al termine dei clamorosi quanto inesauribili batti e ribatti.
Basterebbe questo per consegnarlo alla storia, un quarto di finale così. Composto a doppia firma dai giovani maestri Carlos Alcaraz, che ha meritato di vincere, e Jannik Sinner, che non avrebbe meritato di perdere. Due ragazzi appena, quarant’anni insieme, che nessuno può ancora certificare dove potranno arrivare, nella loro rispettiva crescita di atleti e di uomini. Ma certo l’immaginazione li spinge lontano, nella fascia degli inarrivabili, che sta lassù, da qualche parte, forse ai confini dell’atmosfera. Due rivali di fresca nomina, amici (quanto veri non importa) per loro stessa ammissione, che stanno costruendo insieme un’ipotesi di guida futura del tennis. Un domani che già fa capolino dietro l’angolo e non tarderà ad assumere forma definitiva.
Eppure, nel lungo procedere di un match che ha incantato, scosso, meravigliato e merita di essere posto, al momento, in cima ai confronti più belli della stagione, nell’arco di cinque ore e quindici minuti che hanno tenuto il pubblico in ostaggio, impedendogli persino di espletare le funzioni più naturali (quella di assentarsi per acquistare un cartoccio di ali di pollo al ketchup), Carlitos e Jannik hanno aggiunto al loro travolgente tramestio, un qualcosa in più, cui non capita spesso di assistere. Tra esplosioni di vigoria fisica ed esecuzioni sempre più ritmate, quasi ossessive in certi momenti della gara, il confronto ha acquisito la dimensione di una “prima volta”, al punto da assumere il valore e la solennità di un atto di nascita. Forse un giorno ricorderemo la data, e scriveremo che nella notte tra mercoledì 7 e giovedì 8 settembre 2022, quando un giorno è appena finito e un nuovo giorno è appena iniziato (Marzullo fa la sua figura, in certi momenti), è nato un nuovo modo di giocare a tennis. Venne chiamato Ping Pong Tennis (o Tennis Pong, se preferite), e piacque ai ragazzi per la vorticosa, esaltante, liberatoria sequenza di colpi vincenti.
È stato questo il match tra Carlos di El Palmar, nato 19 anni fa vicino al mare di Murcia, poi allontanatosi per trovare gli irrinunciabili insegnamenti tra le colline di Villena, dove sorge la Juan Carlos Ferrero Equelite Sports Academy, e Jannik Sinner, anni 21, che dalle Dolomiti della Val Fiscalina è sceso per gli stessi motivi verso il mare, quello di Bordighera agli inizi, poi a Montecarlo. Un match costruito su vorticose, esaltanti, liberatorie sequenze di colpi prodigiosi. Alcaraz l’ha vinto aggiungendo al pacchetto la meraviglia di un fisico instancabile, già pronto ai combattimenti più cruenti nonostante la giovane età. Sinner l’ha perso, ma avrebbe potuto (dovuto?) vincerlo, sull’onda di una conduzione più sapiente, nella quale ha trovato il modo di inserire molte delle cose apprese nell’ultimo periodo, le stesse che gli consentono – oggi – di tentare soluzioni in attacco, o di tocco, un tempo impensabili. Ha avuto un match point, Jannik, e l’ha fallito in modo forse banale (un rovescio largo). Ma tutti sappiamo come un match point possa assumere forme infinite, persino beffarde, o irriguardose, e trasformarsi per un nonnulla nel punto che decide la partita. Arrivarci e non trovare sul momento quell’afflato positivo di sensazioni e di occasioni favorevoli, è quanto di più stordente possa capitare. Fin lì Sinner meritava la vittoria, perché aveva rimediato al primo set condotto lancia in resta da Alcaraz, con una prova maiuscola che, soprattutto nella terza frazione, aveva mandato in frantumi la forza d’animo dello spagnolo. Terzo e quarto set Jannik l’ha giocati come solo nel mondo dei sogni è possibile fare. «Stiamo assistendo all’evoluzione futura del modo di giocare a tennis, e sta accadendo sotto i nostri occhi», ha commentato un John McEnroe partecipe e non poco impressionato.
Insomma, quel match point sul 5-3 non era apparso solo decisivo, ma logico, e dunque a suo modo già scritto nella traccia del confronto. Bastava coglierlo, e Sinner non ce l’ha fatta. «È stata una sconfitta dura da digerire», ha detto dopo, costernato, «un colpo durissimo, che non so quanto tempo ci vorrà per assorbirlo completamente». Da lì in poi, Alcaraz ha ripreso svelto il comando delle operazioni. Si è ritrovato sugli scudi, e non è certo tipo da sgomentarsi. Ha chiuso in crescendo, prendendosi tutto. La prima semifinale Slam in carriera, la prima vittoria stagionale su Sinner, l’ingresso nel Club dei partecipanti alle Finals di Torino (quattro i sicuri, al momento, con Nadal, Tsitsipas e Djokovic) e la possibilità di continuare la corsa al numero uno, il cui unico possibile approdo resta la vittoria di questo US Open. «Non ho pensato a niente di tutto questo. Volevo solo vincere, ce l’ho fatta, ed è quello che conta». Sinner dovrà ingoiare il boccone più amaro che vi sia. Ma perdere così non è una tragedia. Avrebbe potuto giocare meglio i turni di servizio. Otto ace e undici doppi falli appaiono decisamente sbilanciati. Ha giocato bene a rete (42 punti su 64 tentativi), ma ha commesso troppi errori non forzati (63, contro i 61 vincenti). Se cerca una buona notizia, eccola… Ha giocato il match più bello della stagione, e ha ancora tanto da migliorare.
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