Ho un’immagine di Gianni più cara delle altre, la prima che mi è tornata alla mente in questi giorni, sapendo delle sue condizioni fisiche ormai lise, sempre più precarie.
Mi viene da una serata a New York, che trascorremmo a teatro insieme con altri amici, spinti dalla voglia di vedere “comunque” un musical.
Scegliemmo Mary Poppins, forse perché era il più vicino ai nostri alberghi, o forse perché ci avrebbe concesso la grazia di astrarci del tutto dal tennis e dai compiti quotidiani in cambio di due ore di completo relax. La produzione era splendida, gli attori e cantanti incredibilmente bravi, ma il protagonista in più della serata fu un Clerici del tutto inaspettato.
Già ai primi siparietti stralunati della Poppins che estrae una lampada di due metri dalla borsa da viaggio, e poi altri oggetti, sempre troppo grandi o troppi lunghi, Gianni – seduto sul pizzo della poltroncina – aveva preso a esultare. Conosceva alla perfezione tutte le canzoni, e le cantò a squarciagola insieme al pubblico. Era come un pupo, capitato nel parco dei suoi giochi preferiti.
Ho sempre riconosciuto a Gianni, la maestria di trasformare nell’arte della parola scritta quelle gioie della gioventù dalle quali non si è mai distaccato, ritenendole un tratto essenziale del proprio carattere.
Il suo tennis. Il suo lago. La sua Como. I suoi aficionados indistinti, con i quali sintetizzava le trame tennistiche della giornata. Le canzoni dei suoi tempi. Bingo, Bango, Bengo, tante scuse ma non vengo. Certe sortite capaci di infrangere qualsiasi regola del “politically correct”, che diceva più per divertirsi a osservare le facce che ne sarebbero seguite, che davvero credendoci. E gli ascensori, nei quali incontrava l’intero popolo del tennis.
Amava essere border line, e non accettava che non glielo riconoscessero. Così come non sopportava di dover scrivere dei tennisti italiani, convinto che nessuna loro partita sarebbe stata meglio della lettura di un suo articolo. Furiosa una polemica a Wimbledon con Francesca Schiavone, rea di aver buttato lì la solita frase… «Voi giornalisti siete tutti uguali». Figurarsi se uno come Gianni avrebbe potuto non dico accettarla, quanto meno ignorarla.
Ci divideva la figura di Adriano Panatta, per me un fratello, per Gianni un cruccio quasi quotidiano, per la sua capacità di restare sul podio, malgrado le molte spallate per farlo cadere. Ne parlavamo spesso, sempre con trasporto, mai polemizzando. Cosa che io per primo mi sarei rifiutato di fare. Per rispetto e per ringraziamento a quello che Clerici ha rappresentato per tutti noi giornalisti e scrittori di tennis.
La sua lezione, sul campo, è stata fondamentale (così come credo, lo siano stati i suoi duetti televisivi con Tommasi, ma questo è un altro campo, e non saprei giudicarlo appropriatamente).
Gianni ha mostrato a tutti come ogni articolo di tennis, o di sport, meritasse di essere innalzato oltre il valore della cronaca, nella scelta delle parole, nella cura dell’esposizione, nella precisa attribuzione degli aggettivi.
Essere, insieme, scrittori e giornalisti è stata la sua via, e l’ha indicata a tutti nel lavoro quotidiano, dando modo ad alcuni di noi (ognuno secondo le proprie possibilità, magari modeste, ma questo è un aspetto che conta solo in parte) di imboccare la stessa strada, elevando la propria scrittura senza venir meno (è quello che spero) alle regole del giornalismo. In questo, Gianni, è stato il più grande. Continuerò a leggerlo negli anni a venire, e a ricordarlo mentre canta “Supercalifragilisticespiralidoso”.
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