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Sinner e Berrettini, meno male che esiste ancora il quinto set…

Quinto set, meno male che non l’hanno ancora estirpato dal tennis, e dal Grande Slam, in questa smania riformatrice che da qualche anno fa venire le palpitazioni a chiunque creda nel nostro sport e ha già compromesso eventi storici come la Davis, ormai ridotta a un’edizione tennistica di Giochi senza Frontiere.

Meno male perché al quinto si aggrappano entrambi gli azzurri promossi agli ottavi, Matteo e Jannik,  chissà se sugli insegnamenti del decano Seppi, che questa volta non riesce a condurre Oscar Otte all’ultimo set, là dove il nostro avrebbe saputo come diventare padrone.

Con Sinner costretto a soffrire più di Berrettini, perché sul suo tennis pesano i due set prima vinti, poi riconsegnati a Monfils. Ma nello strappo finale il ragazzo sceso dalla montagna al mare alla scoperta di orizzonti sempre più liberi e lontani, tiene duro come il francese non ha mai fatto nella sua carriera. Vittoria di qualità, quella di Jannik, che sarebbe stata ancora più alta (rapida di sicuro…) se il servizio avesse prodotto di più e meglio.
    Versione gladiatoria, invece, quella di Matteo, che forse nel gran cozzare di palle e racchette si diverte pure, ma lascia con l’animo sospeso per tre ore e 46 minuti i molti italiani (di origine la maggior parte, chissà), che si addensano sulle tribune del Grandstand, più noto ormai come Berrettini Stadium. Vince sgomitando, guerreggiando, allargando le maglie serrate come una cintura di castità del tennis di Ivashka, che di nome fa Ilya, come Ilio (Troia) con le sue mura imponenti, alte dicono gli studiosi più di otto metri. Match difficile per più di un motivo. Perché Ivashka non è ancora sazio della sua calda estate di buoni risultati (vittoria a Winstom-Salem e ottavi olimpici a Tokyo). Perché Matteo ha superato l’infortunio alla coscia ma deve ancora ritrovare la forma brillante che lo faceva risplendere sull’erba di Wimbledon. E anche perché, alla fine, non tutti i match riescono come uno se li aspetta, anzi, alcuni di essi molto ricordano le caramelle con il buco che era impossibile succhiarle lentamente senza che si rompessero in due parti.
    Proprio con i momenti di rottura Matteo ha avuto il suo bel da fare, e averli superati uno a uno, in un match che sembrava costruito sul ciglio di un dirupo, offre il dato più interessante di questo terzo approdo consecutivo agli ottavi degli Us Open. Cinque set lunghi e faticosi, partiti in salita per via di un primo set strappato a morsi al tie break da un Ivashka che appariva centrato e insaziabile. Lì Matteo ha saputo far fronte con la calma dei forti alla piega negativa che il match avrebbe potuto prendere. Ha forzato il servizio, ottenendone come sempre un rendimento altissimo (27 ace e l’84% di punti ottenuti con la prima palla), e ha preso le misure al biondino bielorusso dall’aspetto mite (solo l’aspetto, però) che alla fine ha sbarellato. Una volta sul 3-2 per Matteo nel secondo set, un’altra sul 4 pari del terzo, con Berrettini sempre pronto ad approfittarne. Ma la quarta frazione ha rimesso in gioco Ilya, e ha obbligato Matteo ha calarsi da capo nella parte del tennista tetragono e intrattabile. Il via libera è giunto con il break nel secondo game della quinta partita, e da lì Berrettini ha proseguito scortato dagli applausi.
    Non giocava il quinto set da gennaio di un anno fa, Matteo, e lo aveva smarrito contro Sandgren, anima da filibustiere. Questa volta ha saputo gestire le difficoltà. Negli ottavi trova Oscar Otte, il tedesco che ha fatto saltare il derby italiano con Seppi, battuto in quattro set. L’obiettivo immediato restano i quarti, con la terza sfida a Djokovic.
    A dire la sua sui possibili sviluppi della prima guerra della prostatite, è stato il diciottenne Carlos Alcaraz, che ha sbattuto la porta della toilette sul muso di Stefanos Tsitsipas mettendo la parola fine a ogni ulteriore fremito bellico, o corporale. Troppo bravo, troppo forte Carlito per essere considerato appena un medicinale contro ogni forma di cistite (sebbene un bicchiere al dì di alcazar effervescente non è detto faccia male), la verità è che la scoperta di questo ragazzo di El Palmar (una delle spiagge vicino Murcia), tirato su con amore paterno dall’ex numero uno Juan Carlos Ferrero, e lanciato sul circuito dopo un anno di apprendistato nei Challenger (tre tornei vinti, l’anno scorso), ha riportato la Spagna nelle prime posizioni della corsa dei Next Gen, nella quale l’Italia continua a vantare – con un Sinner ventenne ormai lanciato verso un nuovo best ranking al numero 14, e un Musetti diciannovenne al numero 57 – un’evidente supremazia. Carlito, prodigioso per la violenza che esprime negli impatti sulla palla, da qualsiasi posizione la colpisca, mostra con disinvoltura le stimmate di un futuro signore del circuito. Ha vinto a Umag il primo torneo ATP, è riuscito a superare un turno in ognuno degli Slam. «È molto serio, molto maturo», il giudizio di Ferrero, «sta migliorando nel fisico, sul quale ha messo quei due, tre chili di muscoli che lo aiutano quando le energie vengono a mancare. Si diverte a giocare, si allena con piacere, può migliorare ancora molto». Com’è adesso è stato sufficiente a mettere il bavaglio a Tsitsipas, in un tie break del quinto set vinto sul filo, dopo un set di battaglia che il greco, straripante nel quarto, forse non si aspettava.
Esce fra le lacrime, ormai diventate il suo brand, la campionessa in carica, Naomi Osaka, che non riesce a ritrovare quella naturalezza nel gioco e quella fiducia in se stessa che l’avevano indicata come la possibile numero uno del futuro. «Fossi i genitori», dice Becker, «l’abbraccerei forte, le darei un bacione sulla fronte e le direi di continuare pensando solo a divertirsi». Ricetta antica, ma ragionevole. Continuare così, non ha molto senso. A parte la montagna di dollari che le arriva dagli sponsor…

Daniele Azzolini

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