di Salvatore Sodano C’era un ragazzo che come me… amava i Beatles il Rock&Roll… e il tennis? Forse, ma scavando nel fotocatalogo dei vip, a disposizione nella banca dati, di Morandi tennista non c’è traccia. Allora? Cosa c’entra Morandi con il tennis, a parte le circostanze che spesso lo hanno visto esibirsi negli stadi del […]
Solo nel paradiso del tennis è possibile giocare così, unire tanta potenza alla grazia estrema di certe magie, rendere l’erba più azzurra di quanto non lo sia mai stata… C’è un italiano in finale a Wimbledon, e la cosa è talmente enorme, che si fatica a trovare le parole. Ma la parte più bella, e incredibile, viene dal tennis che a questa finale ci ha sospinto, uno a uno, game dopo game, tra un’esultanza e un sospiro.
Un match perfetto in ogni singola partitura, grondante ace, disegnato con le geometrie di un quadro di Mondrian, capace di muovere a stupore per la difficoltà dei colpi che si sono visti. In assoluto una delle pagine più belle che il nostro tennis abbia mai scritto. In calce, la firma dell’ultimo iscritto al Club dei Più forti. Barba pizzuta, riccioli incolti, portamento da combattente. Matteo Berrettini. «Uno destinato a stare nei primi cinque del mondo per i prossimi cinque anni», Mats Wilander lo presenta così.
Ed è bella anche la festa della promozione. Perché non è straripante di lacrime e commozione, ma contenuta, quasi intima, dedicata alla famiglia che è venuta in forze da Roma per stare intorno al suo ragazzo che ormai vede poco, perché Mat vive tra Montecarlo (casa sua) e la Florida (casa di Ajla, la fidanzata).
Matteo indica con il dito il gruppo familiare, nel quale include anche il suo team di coach e amici. Sembra dire… «Questa è per voi». Mamma Claudia è lì che balla accanto al figlio più giovane, Jacopo, che tanta parte ha avuto in questa storia, dato che fu lui – bimbetto – a spingere Matteo fuori dalla palestra di judo per costringerlo a entrare su un campo da tennis. Papà Luca sembra uscito da un incubo. È stato per tutto l’ultimo set avvolto dentro il suo cappellino, guardando da un pertugio della visiera. È come se avesse seguito il match dal buco della serratura, stretto tra foschi pensieri e le emozioni che lo facevano sussultare. La più tranquilla è Ajla. Gli manda un bacio, ma ha l’aria di chi sapeva già tutto. «Matteo vale questa finale».
Lo sentiva anche Adriano Panatta, e lo ha scritto proprio ieri. «Matteo è pronto per la grande impresa». Eccola. Quarantacinque anni dopo il suo Roland Garros, e proprio nel giorno del compleanno numero 71. Festa doppia anche per lui (auguri, a proposito), che non vedeva l’ora di abbandonare i panni dell’ultimo a esservi riuscito.
Venerdì 9 luglio. Matteo giunge in finale a 25 anni, la stessa età di Adriano, che stava per compierne 26. Ma ha fatto prima, l’apprendistato è stato più rapido… Il 9 luglio di tre anni fa Matteo era già fuori dai Championships, aveva battuto Sock in cinque partite, ma il ritmo slow di Gilles Simon lo aveva spento, lasciandolo alla deriva. Anche l’anno dopo, il 9, era già fuori, ma con più meriti e una sconfitta di cui ha fatto tesoro.
Aveva vinto il primo titolo sull’erba a Stoccarda, era giunto a un passo da Federer ad Halle, semifinalista, poi aveva ritrovato il Genio negli ottavi di Wimbledon, ed era finita 61 62 62. «Quando ti devo per la lezione?», una frase diventata famosa, sulla quale Mat ha lavorato in questi anni, per non dover più subire lo sconquasso delle emozioni. C’è riuscito. È in finale alla sua terza partecipazione a Wimbledon.
«La cosa che più mi impressiona di lui è la forza mentale», dice Ajla Tomljanovic, «sì certo, il servizio, il dritto sono incredibili, ma se devo indicare la sua arma segreta, Matteo ce l’ha qui, nella testa, perché riesce a imparare da tutto, dalle vittorie e dalle sconfitte». Uno studente modello, nello studio di se stesso…
Alla fine, lo stesso Hurkacz più degli scambi spesso irriverenti cui l’ha sottoposto Berrettini, ha sofferto la sicurezza dell’italiano, quel suo dimostrargli colpo su colpo che non gli avrebbe concesso una sola chance. Bè, una alla fine gliel’ha data, nel tie break del terzo, e il disperato Hurcules, cui inneggiavano sparuti cartelli in tribuna (Hu Hu, l’altro soprannome) vi si è aggrappato come a una speranza di sopravvivenza, ma è stato un attimo. Matteo ha dominato il match in termini quasi totali, dal 2-3 del primo set all’1-0 del terzo ha inanellato 11 game perfetti, tali da far stramazzare avversari ben più tosti dello stranito Hurkacz.
E nel quarto, la ripartenza è stata fulminante. Break nel secondo gioco, un vantaggio che Matteo si è tenuto stretto da cima a fondo, arricchendolo di ace, addirittura quattro di seguito (il game perfetto) nel settimo game. Sono stati 22 gli ace del match (5 per Hurkacz), e fanno 101 nell’arco del torneo. Ma tutto il confronto si è riempito di dati strabilianti: l’86% di primi servizi andati a punto, addirittura il 40% di risposte vincenti sul servizio del polacco (un grande miglioramento, questo, nel gioco dell’italiano). Per non dire dei 60 winners contro i soli 18 errori non forzati e dei 30 punti in più dell’avversario nel totale (127 a 97). Scrosciante, Matteo. Più di un acquazzone sulla testa del povero Hu Hu.
Matteo sale da ieri al terzo posto della classifica Race. Sbaglieremo, ma il biglietto per le Finals di Torino è già staccato. È dietro Djokovic e Tsitsipas, ma davanti a Rublev, Zverev, Medvedev e Nadal. Ora c’è da preparare con calma la finale. Djokovic l’ha affrontato a Parigi e qualcosa di certo ha imparato. Ai british, è piaciuto. L’hanno applaudito, forse il tifo sarà per lui. Forse… C’è tanta Italia dappertutto. Calcio, tennis. Dobbiamo abituarci noi, figurarsi loro.