Le scommesse nella “Covid Season”

L’ultimo messaggio della prima Covid Season giunge da una Finale Atp fortemente voluta per dare un senso compiuto a un anno senza senso. E paradossalmente, è stata la cosa migliore della stagione, giocata da tennisti nel momento più squillante del loro stato di forma.

Niente a che vedere con quella sensazione di spossata ineluttabilità che ha permeato molte delle precedenti edizioni, precedute da una marea di tornei e d’impegni.

Il lockdown di tre mesi ha cambiato l’identikit del nostro sport, e non soltanto per l’assenza di pubblico. Si è fatto il possibile per allestire un calendario decente, ne è sortito un ircocervo tennistico, un animale mezza capra e mezzo cervo, mitologico e inesistente, brutto da far paura.

Ma non si poteva fare altrimenti. In apertura uno US Open quasi indecente per il livello di gioco espresso a livello maschile, con una finale imbrigliata dalle reciproche paure di Thiem (alla fine vincitore e 150° detentore di un titolo Slam) e Zverev.

Poi un Roland Garros inzaccherato di pioggia e fango, giocato con palline sbagliate (da veloce, figurarsi) che crescevano a vista d’occhio nel corso dei match fino a diventare simili a chihuahua. E c’è chi giura di averle anche sentite latrare.

Tornei salvati dal confronto fra le ragazze, più a loro agio (data la ridotta potenza di fuoco) nel gestire i ritardi di forma e il forzato rallenty delle lande parigine. Naomi Osaka a New York e Iga Sviatek, due amiche, hanno messo in campo personalità e colpi.

Naomi ha usato l’evento per vincere e parlare delle cose in cui crede, della sua appartenenza al Black Lives Matter. Si può essere solidali o meno con il suo punto di vista, ma è innegabile che la giapponese sia tornata alla ribalta con spirito adulto e una voglia grande di essere se stessa fino in fondo, da tennista e giovane donna. Ricorda Serena. 

Così, per una volta, le Finals hanno accolto il tennis maschile nel momento migliore. Muscoli in tiro e pensieri non ancora obnubilati dall’acido lattico. Ne è sortito il tennis più bello della stagione, con almeno due match da ricordare, la semifinale vinta da Thiem su Nadal e la finale, dominata da Medvedev, fra i due tennisti che hanno condiviso con Rafa e Djokovic (per quanto fatto nei primi tre mesi) il podio del 2020. 

Parte da questi presupposti la seconda Covid Season. Tornei da inventare, spostare, rimpannucciare. E lucidare anche, in modo che risultino più brillanti di quello che potrebbero essere alla prova dei fatti. Insieme, un gruppo di ex ragazzi ormai in grado di contrastare il passo ai Più forti di Sempre, e dietro alcuni giovani tra i quali potrebbe nascondersi il Più forte del futuro.

Non sarà un anno facile per Djokovic, che comunque parte favorito a Melbourne, dove ha già vinto otto trofei. Sul cemento, Medvedev è a un tiro, Zverev e Tsitsipas quasi, Thiem può causare sfracelli. E sulla terra rossa l’austriaco sembra essergli già superiore.

E non sarà una passeggiata nemmeno per Rafa, che dovrà proporsi sempre nel miglior stato di forma possibile. Inutile dire di Federer. Riparte da Doha. Lasciamogli un mese per ritrovarsi, poi ne sapremo di più.

Un caleidoscopio di atleti, tutti con le loro peculiarità e le loro debolezze, pronte a emergere o eclissarsi in ogni match e che di certo, in questo momento storico così particolare e difficile, andranno a incidere e spesso a sovvertire i pronostici della vigilia.

Gli appassionati di questo sport sanno bene che questa stagione potrebbe essere ancora più imprevedibile della precedente e ogni pronostico, ogni scommessa porta con sé un margine d’errore che è passato da lieve a moderato.

E rimanendo in tema, forse mai come in questo momento è bene selezionare e sfruttare con oculatezza i migliori bonus scommesse sul tennis per ridurre i rischi grazie alle offerte sulla registrazione.

Ai ragazzi, il compito di crescere. L’Italia ne ha due che promettono. Sinner, 19 anni, è considerato dall’intero circuito un futuro top ten, e Musetti, che ha un anno di meno, promette un prossimo insediamento nei 100. Tra i nomi antichi, Shapovalov attira di più, ha appena 21 anni, è già numero 12, e ama cercare soluzioni impossibili di gioco. Quando le azzecca, è da applausi non meno del primo Federer.

Poi Rublev e Berrettini (23 e 24) due che nella giusta condizione possono sparigliare le carte su ogni tavolo. Tra i giovanissimi, occhio ad Alcaraz, pupillo di Rafa. Ha conquistato un posto agli Australian Open passando le qualifiche. Ha 17 anni, e sarà l’avversario bambino di Sinner.

Tutto questo anche in vista delle Atp Finals torinesi, che dal prossimo novembre, per 5 anni, avranno il compito di chiudere la stagione del tennis. L’unico evento, come si è visto, che si sottrae ormai da quattro anni alle regole che ancora governano il circuito.

Nel torneo dei maestri il titolo nobiliare di più alto conio tennistico, l’appartenenza al ristretto club dei Fab Four, non sembra più irradiare la sua luce sfolgorante, stella cometa di tutto il movimento. Erba, cemento e terra sono i tre elementi ancora governati dal vecchio sistema. Ma il tennis indoor appartiene ormai al nuovo tennis, e già accoglie le sfide che indicheranno i futuri padroni del vapore, i nuovi governanti. Le ultime quattro edizioni sono state di Dimitrov, Zverev, Tsitsipas e dell’Orso Medvedev (nickname scontato, medved in russo vuol dire proprio orso).

Un viaggio lungo ormai cinquant’anni, quello delle Finals, che ha coinvolto quattordici città (torino è la quindicesima), da Tokyo, dove tutto prese forma, al Madison Square Garden di New York, in piena Manhattan, da Francoforte e Hannover nella Germania del Grande Tennis ai tempi di Boris Becker, fino a Shanghai quando l’ambasciatore Federer ricevette l’incarico di far innamorare i cinesi. Storia diversa da quella più nota e tradizionale dei tornei Major e della Davis, ma non meno affascinante. E in grado di incidere sui massimi sistemi del nostro sport.

Il messaggio che viene dalle Finals numero 50 andate in archivio lo scorso novembre è potente, il lungo e dorato dominio di Federer, Nadal e Djokovic volge al termine. È stato grandioso. Forse irripetibile. Oppure no, chissà. Sarà Torino a darci le risposte che cerchiamo.

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