Fredrerico Ferreira Silva non era ancora arrivato al primo match point contro Gregoire Barrere che già i primi mormorii non proprio di felicità erano arrivati ai social, tanto si sa che dei giornali può fregare qualcosa solo a giornalisti con qualche problema di sintassi.
Il torneo di qualificazione che si stava giocando tra Dubai (maschi) e Doha (femmine) era solo l’antipasto di un meccanismo un po’ farraginoso che tra atleti di uno sport così legato alla ripetitività dei gesti, delle abitudini, della programmazione da un anno all’altro, non poteva che essere visto come eccessivamente intrusivo.
Giovani nel pieno della loro vigoria fisica, consapevoli di rischiare decisamente poco, faticano a comprendere la ratio di provvedimenti che, a dire la verità, non hanno nessun tipo di giustificazione scientifica.
Non che i tennisti – o chi per loro in un entourage naturalmente dedito ad altre e più amene faccende – abbiamo particolare contezza dell’efficacia o meno dei singoli provvedimenti, ma l’essere messi in quarantena pur non essendo contagiati né tantomeno malati, dietro il ricatto di non farli arrivare in Australia se non si fossero piegati ad un regolamento più incomprensibile che vessatorio, a molti di loro sembra intollerabile.
Finite le qualificazioni i tennisti che avevano strappato l’agognato pass dovevano imbarcarsi in uno dei charter messi a disposizione dall’organizzazione per trasferirsi immediatamente in Australia e lì trascorrere i giorni che li separano dal torneo in quarantena.
Una quarantena molto rigida, perché in teoria i giocatori, ed un solo allenatore, possono percorrere il tragitto dall’albergo ai campi d’allenamento per allenarsi per non più di cinque ore al giorno. In teoria.
Perché in pratica è stato sufficiente che sul volo ci fosse un positivo per togliere anche quelle cinque ore d’aria a dei ventenni incapaci di stare fermi, se appena appena vi ricordate com’era a vent’anni.
Così si è finiti con l’essere confinati in anguste stanze d’albergo e così, con i soli strumenti a disposizione: gli smartphone e gli IPad, sono partiti i lamenti.
Sempre di tennisti si tratta e non ha troppo senso attendersi articolati ragionamenti sul sovradimensionamento delle precauzioni rispetto al rischio effettivo, e quindi hanno cercato dei pretesti che potessero essere comprensibili per tutti.
Dal topo in stanza di Yulia Putintseva ai pasti orribili di Benoit Paire; dai capelli sporchi della fidanzata di Tomic all’elenco di richieste di Djokovic, che assomiglia sinistramente al tentativo di una comunità assediata di alleggerire gli attacchi degli assedianti.
Il fatto è che complice l’isteria mondiale, dei normalissimi eventi si sono trasformati in drammi epocali.
Il principio di precauzione così declinato si è trasformato in qualcosa di più simile ad una qualche forma di sadica vessazione che di effettiva profilassi. Per fare un esempio è come se vi vietassero di attraversare la strada perché magari qualcuno non vede il rosso e vi mette sotto. Alla fine sicuramente diminuirete i morti per incidenti stradali ma nessuna società conosciuta ha mai pensato che potesse essere un beneficio tale da immobilizzare i cittadini.
Il fatto è che un numero enorme di persone in questi mesi si è lamentato dell’eccessiva limitazione delle libertà personali ma pochi di loro hanno avuto l’occasione di esporre le proprie ragioni o quanto meno di accedere ad un qualche organo di formazione. E nessuno di loro aveva ovviamente tutti i contatti che può avere un top100 dell’ATP o della WTA, a cui rivolgersi più o meno direttamente.
Figurarsi poi se è il numero 1 dell’ATP, già coinvolto nel famigerato caso dell’ADRIA TOUR – che non sembra abbia mietuto vittime, per quanto è dato a sapere – a dar voce ai fastidi di sportivi con un certo seguito.
Purtroppo anche in questo caso il governo australiano, nello specifico, sta ricorrendo ad una strategia sin troppo usata in questi tristi tempi di COVID, cioè quella di definire “viziati” chi reclama un minimo di vivibilità e di contrapporla a quelli che invece non hanno neanche questa possibilità, aizzando istinti davvero brutali: “se noi non siamo liberi, neanche i tennisti devono esserlo”.
Si dimentica inoltre che la maggior parte di questi ragazzi non sta giocando, si sta guadagnando da vivere. E non è andato in Australia per divertirsi e perdere anche il prize money del primo turno di uno slam, col quale sistemare l’annata, è un disastro. Essere sotto un ricatto risibile – o così o fai il rider, tanto per rimanere su un tema in voga da noi – dovrebbe far scattare qualche forma di solidarietà. E invece.
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