“Se non ti batti per qualcosa, qualcosa ti batterà”. La storia politica di Naomi Osaka, giovane donna di colore e da ieri paladina del Black Lives Matter, “la vita dei neri conta”, a capo della sezione tennistica del movimento, comincia da questa frase che ha lo stesso sapore dei molti aforismi sparsi lungo venti anni di carriera dal suo amico più caro e ormai perduto, Black Mamba, al secolo Kobe Bryant. Non sono parole di ieri. Naomi le scrisse, tra una foto e un commento, il giorno della grande manifestazione di Minneapolis, il 26 maggio scorso, organizzata per protestare dopo la morte di George Floyd, l’afroamericano deceduto in seguito a un arresto violento da parte della polizia. Lei partecipò, partendo la mattina presto da Los Angeles, dove vive, e ne fornì un ampio resoconto sui social, puntellato da riflessioni amare e sconcertate. Ieri, la tennista ha compiuto un passo avanti nel ruolo di combattente per i buoni diritti delle popolazioni nere, che non vogliono più pagare sulla propria pelle i rigurgiti razzisti di quella parte della società che nella discriminazione crede di trovare una soluzione alle proprie paure e al malessere sociale in cui vive. È stato il giorno della prima sortita pubblica ufficiale nel suo mondo, il tennis, condotta per vie dirette, com’è nel suo stile. Ha fatto sapere di non essere disposta a giocare la semifinale del torneo di Cincy contro la belga Mertens, perché appoggia la protesta dei giocatori di basket esplosa dopo il ferimento da parte della polizia del ventinovenne nero Jakob Blake a Ketosha, vicino Milwaukee, perché (ha scritto in una dichiarazione manifesto) “guardare il continuo genocidio della gente di colore per mano della polizia mi dà il voltastomaco”, e perché “sono una donna di colore, e come donna di colore credo che ci siano cose più importanti cui prestare attenzione piuttosto che guardarmi mentre gioco a tennis”.
Una presa di posizione che ha avuto l’effetto, clamoroso e unico nella storia del tennis, di dare la sveglia a Wta e Atp, obbligate a correre ai ripari e affiancare la Nba del basket decretando una giornata di stop al torneo. Il tennis tornerà domani. La finale si sposta di un giorno (a sabato), e per gli Us Open che partono lunedì ci sarà un giorno in meno di riposo, cosa che Naomi ha chiosato con un nobile sebbene ponderato “chi se ne frega”.
Non è il tennis uno sport immune dalle questioni razziali, non lo è mai stato e non lo è nessuno in questo mondo. Ma prese di posizioni dure e definitive vi furono solo per l’apartheid, con l’isolamento del Sud Africa in Coppa Davis e nell’organizzazione dei tornei dal 1979 al 1991. Questo non impedì al Paese africano, nel 1974 (mentre Nelson Mandela, fondatore del movimenti anti-apartheid e grande appassionato di tennis, era in carcere già da dieci anni) di aggiudicarsi la bowl senza giocare la finale, dato il rifiuto dell’India di battersi sportivamente contro un Paese governato da leggi fortemente improntate alla discriminazione razziale. Altre vicende, non meno significative, hanno subito invece nel corso degli anni una sorta di polverizzazione, operata dalla disattenzione e dal menefreghismo, che le ha ridotte a brevi racconti, talvolta ad aneddoti. Qui troviamo di tutto, da Lleyton Hewitt che nel 2001 fermò il gioco durante un match agli Us Open con James Blake, per chiedere al giudice arbitro se non notasse qualche punto in comune fra il suo avversario e il giudice di linea (entrambi neri) e se la cosa non potesse configurarsi come una cospirazione ai suoi danni; alle difficoltà vissute da Arthur Ashe e Althea Gibson per diventare tennisti, in un’America i cui circoli sportivi rifiutavano l’ingresso ai neri. Meno conosciuto, ma significativo, un episodio sempre legato al SudAfrica, che vide protagonista Monica Giorgi nel 1972. Impegnata in Fed Cup a Johannesburg, l’azzurra rimase colpita dal piccolo rettangolo transennato aperto in tribuna (in modo da non incorrere in sanzioni) per gli appassionati di colore. Per tutta risposta giocò l’ultima giornata con una maglietta sulla quale era rappresentato un atto di amore attraverso il disegno di due piedi neri sovrapposti a due bianchi. Pochi se ne accorsero, forse. Ma non la federazione italiana, che squalificò la Giorgi per due anni.
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