Tornare e non essersene mai andate

Bjorn Borg ha probabilmente traumatizzato generazioni di atleti e appassionati. Il suo disastroso tentativo di rientro all’attività agonistica, nei primi anni ’90, è l’esempio ricorrente su come il corso del tempo vada accettato con serenità, senza azzardare tentativi ad alto tasso di figuraccia.

Kim Clijsters questo consiglio non ha mai voluto ascoltarlo. L’incoraggiante performance di pochi giorni fa contro Garbine Muguruza ha mostrato una giocatrice tutt’altro che arrendevole o in forma inaccettabile. D’altronde, già una volta ha avuto maledettamente ragione, quindi perché non riprovarci? Che le giovani avversarie debbano prendere in seria considerazione le ambizioni della “vecchia” campionessa?

Nell’attesa di vedere come andrà a evolversi questa terza vita tennistica di Kim, ripercorriamo altre tre grandi rinascite, diverse per tipologia ma identiche per risultato.

Mamma Margaret è vecchia, solo 3/4 di Slam

Le deprecabili esternazioni che non cessa di ribadire senza rimorso di anno in anno, oscurano la grandezza tennistica di Margaret Court. Per quanto il peso delle vittorie in diverse epoche sarà sempre oggetto di infinite e inconcludenti discussioni, i numeri lasciano poco spazio a sfumature: 64 titoli dello Slam, 24 in singolare (su 47 giocati), tre Grand Slam (uno in singolare), Career Grand Slam ovunque, 192 tornei vinti.

L’obiezione che 11 dei suoi major siano stati vinti in madrepatria, 7 dei quali in epoca amatoriale, è leggera, se si considera soprattutto che il Grand Slam in singolare sia stato ottenuto nel 1970, quando il professionismo era già arrivato. Non vinceva solo in Australia: è anzi l’unico tennista della storia, uomo o donna, ad aver conquistato almeno due volte ogni Slam in tutte e tre le discipline.

Perdere da nonno Riggs, battere la nipotina Chris

Il suo stesso 1973 è probabilmente ricordato sotto una luce eccessivamente mediatica e parziale. Nel maggio di quell’anno, infatti, prese luogo il cosiddetto “Mother’s Day Massacre”, giorno in cui la Court, madre da poco più di un anno, venne sonoramente sconfitta dal 55enne Bobby Riggs.

Quella fu però una stagione impressionante per l’australiana: 18 titoli vinti (è tuttora record), 108 partite vinte e sole 6 perse, trionfo agli Australian Open, al Roland Garros e agli US Open. Nel primo major dell’anno, la Court divenne la prima giocatrice madre a vincere uno Slam nell’Era Open. Solo la sconfitta in semifinale a Wimbledon le impedì di ottenere un altro Grand Slam. A fermarla fu Chris Evert, che vendicò così il ko subito poche settimane a Parigi.

Solo tre giocatrici-madre sono state campionesse Slam (Era Open): Court, Goolagong e Clijsters

La finale memorabile di quell’anno fu proprio quella, tra la 30enne Court e la 18enne Evert. Non si parlava ancora di NextGen, ma la vecchia guardia riuscì a respingere la veemenza giovanile: 67 76 64.

Nel 1974 la Court divenne nuovamente madre ma il suo nuovo rientro non fu minimamente paragonabile al primo.

Baby Jenny finalmente donna

Se la rinascita della Court è arrivata quando già aveva 21 Slam, Jennifer Capriati è rinata dopo aver vissuto 21 vite. Storia più famosa degli anni ’90: il debutto a 13 anni con semifinale Slam a 14, l’oro olimpico, le mille cadute di una ragazza troppo giovane per poter sopportare quel peso.

Il gennaio 2001 non fu nemmeno il momento preciso della sua resurrezione. Fu un processo graduale, a partire dal ’99. Tre tornei (minori) vinti, la prima semifinale Slam dopo quasi 9 anni, in Australia nel 2000, la risalita in classifica fino alle prime 20. Ma quando si presentò agli Australian Open 2001 da tds 12 nessuno le dava un dollaro di possibilità. A 25 anni nemmeno compiuti era una reduce, più che una speranza in flebile vita.

In carriera, la Capriati ha vinto solo 14 finali su 31, ma negli Slam il record è immacolato: 3 su 3

Prospettive e considerazione cominciarono a cambiare nei quarti. Di fronte un altro ex baby prodigio tragico, Monica Seles.

Tutto iniziò con la sorella del futuro Monica

I tempi in cui quella tra le due era considerata la sfida del futuro erano passato sepolto. Si affrontavano ora due giocatrici (due donne) totalmente diverse. Dopo il rientro inizialmente ricco di successi, la Seles stava lentamente scivolando in un anonimato di lusso, tradotto in tanti piazzamenti. Quello australiano era il quinto quarto di finale Slam consecutivo e in nessuna occasione era riuscita ad andare oltre.

La vittoria contro Steffi Graf per l’oro olimpico ’92 fu l’unico suo successo in undici incontri contro la tedesca

La musica aveva però tutt’altro suono, quel giorno. Almeno in apparenza. Vinto il primo set 75, la Seles era avanti di un break anche nel secondo, indirizzata verso una semifinale contro la campionessa in carica, Lindsay Davenport. Jenny però ribaltò la partita con sorprendente nonchalance, per il 57 64 63 finale. Con quei due stessi parziali (invertiti in semi), piegò le ferree resistenze di Davenport e di Martina Hingis. Vinse così il primo Slam a 24 anni e 10 mesi e tornò in top 10 dopo quasi otto anni: nessuno ha mai aspettato tanto.

Non si fermò lì. S’impose anche al Roland Garros e fece semifinale negli altri due major, si suicidò a Indian Wells contro Venus (otto championship point falliti) e portò al suicidio Serena (a Wimbledon rimonta da 76 53 30-0). Troppi picchi per non arrivare all’unica cima che le mancava: il 15 ottobre divenne la decima n.1 della storia WTA. Posizione che tenne a singhiozzo per 17 settimane da lì al giugno 2002.

Tutto finì con la gemella diversa Martina

Ultimo capitolo. Pur partendo dalle stesse basi di prodigi giovanili, le carriere Slam di Capriati e Hingis sono state speculari: la svizzera vinse tutto all’inizio, l’americana alla fine. Jenny fece pesare questo macigno a Martina battendola in tutti e tre i major vinti. Se a Parigi le montagne russe se le risparmiò in finale contro la Clijsters (12-10 al terzo), nella rivincita australiana del 2002 la Capriati rifilò alla Hingis il ko più doloroso in carriera (Majoli ’97 a parte, si capisce). Sotto 64 40, devastata da un caldo insopportabile, Jenny riuscì ad annullare 4 championship point (record), rimontare un break anche nel terzo e trionfare 46 76 62. Degnissima immagine finale della più emozionante delle redenzioni.

Monica trova l’America in Australia

È forse l’immagine storica più conosciuta del tennis. Quella che ricordano o conoscono tutti, anche chi non sa distinguere Wimbledon dal Roland Garros. Monica Seles accasciata sulla terra rossa di Amburgo. Accoltellata da un tifoso di Steffi Graf. Günter Parche non ne poteva più di vedere la sua beniamina soccombere di fronte a quella stellina sgraziata, fatta di urletti e fondamentali bimani. Ma che in campo era un’autentica forza della natura: aveva vinto 7 degli ultimi 8 Slam a cui aveva partecipato.

A distanza di quasi 30 anni, quell’episodio continua a porre domande su come sarebbe stata la storia del tennis recente se Parche, fedele al suo nome, non avesse tagliato il filo del destino dell’allora diciannovenne Monica. Che subì un’altra coltellata, non meno dolorosa, dalle colleghe, le quali si opposero in blocco (Sabatini a parte) alla salvaguardia del suo ranking.

Nell’agosto del 1995, a distanza di oltre due anni, rientrò un’altra Monica Seles. Letteralmente. Abbandonate le ceneri jugoslave, nel 1994 aveva abbracciato la bandiera statunitense, colori con cui ha poi vinto due Fed Cup, nel 1996 e nel 2000, e un bronzo olimpico, a Sydney.

Non c’è più nessun trono per due

A non sembrare, almeno all’inizio, un’altra Monica era quella in campo. Dal primo turno degli Open del Canada, suo torneo di rientro ufficiale, alla semifinale degli US Open, i suoi risultati furono i seguenti: 60 63, 62 62, 63 62, 61 60, 60 61, 63 61, 62 61, 61 61, 61 64, 76 62, 62 62. Tra le avversarie, Tauziat, Huber, Sabatini, Novotna, Martinez. A metterle il sacrilego sassolino del tie-break fu la compianta campionessa ceca.

Tutto sembrava essere tornato dove era stato interrotto, con il tornado pronto a detronizzare nuovamente la regina Graf. Che in quei due anni aveva approfittato per rimettere le cose a posto in bacheca: 7 Slam vinti su 10 disputati, 4 dei quali consecutivi (quelli immediatamente successivi all’accoltellamento).

Il tornado funzionò solo nel secondo set, con l’unico bagel inferto alla tedesca in carriera. La regina respinse la principessa ferita, 76 06 63. Quella partita fu tutto sommato un’illusione: non c’era più alcuna rivalità. Dopo il rientro, Monica e Steffi si sono affrontate in sole cinque occasioni (4-1 per la tedesca, che a dispetto del credo generale, era avanti anche prima, 6-4, per il 10-5 finale), non era più la Sfida. Steffi ha dato l’ultima zampata dittatoriale nel 1996, con tre Slam vinti su tre disputati, mentre Monica ha fatto capire pian piano che non sarebbe tornata ai livelli di prima.

La rimonta contro la regina delle imprese folli

Pian piano, ma non subito. Il 1996 iniziò infatti al solito modo, con la vittoria a Sydney (battuta in finale la Davenport) e turni macinati, agli Australian Open, a suon di sberle. Questo fino in semi. Per Chanda Rubin quell’edizione 1996 rimarrà sempre un ricordo indelebile. Vinse il torneo di doppio, in coppia con Arantxa Sanchez, e proprio con la spagnola diede vita a uno delle sfide più memorabili della storia del torneo. Ai quarti, dopo aver battuto la Sabatini agli ottavi, la teenager statunitense sconfisse 16-14 al terzo la campionessa spagnola. Erano mesi particolarmente epici per la Rubin, che per il terzo Slam consecutivo vinse una partita fuori da ogni logica: a Parigi aveva rimontato, nel set decisivo, uno svantaggio di 0-5 0-40 e 9 match point complessivi a Jana Novotna, mentre a Wimbledon superò Patricia Hy-Boulais 76 67 17-15.

Nelle uniche due occasioni in cui Monica ha vinto un set 60 in finale Slam, a NY nel 1995 e a Parigi nel 1998, ha poi perso il match

Ma non tutte le follie hanno un lieto fine. La Rubin si ritrovò infatti 5-2 nel terzo contro la Seles e arrivò a due punti non solo dalla finale, ma anche dall’essere la prima giocatrice di sempre a battere Monica a Melbourne. Complici le molte assenze, la Seles ha infatti assaggiato l’amaro sapore della sconfitta in Australia solo nel 1999! L’americana crollò di fisico e nervi 67 61 75. Non ha mai più raggiunto una semifinale Slam.

Superato lo spavento, la Seles dominò la finale contro Anke Huber e poté scogliere tutto il dolore dei tre anni precedenti in un sorriso liberatorio.

Scoprirsi forte ma non più la migliore

Quel sorriso sembrava iniziare una nuova era, ma non fu così. Sconfitte impreviste cominciarono a diventare prevedibili. Non che sia mai scesa a ruolo di triste comprimaria: se si eccettua l’ultima stagione, il 2003, dove però giocò pochissimo per infortunio, ha sempre chiuso l’anno tra le prime dieci. Solo nel 1999 non è riuscita a vincere più di un torneo. Nei primi due anni post-rientro, ha battuto per 30 volte una top 10.

Ma la ragazzina cannibale non esisteva più: in quella che doveva essere la rivincita, la finale ’96 degli US Open contro la Graf, Monica fu sconfitta ancora più nettamente. Nel 1998 arrivò l’ultima finale major in carriera, sull’amata terra parigina, e Arantxa Sanchez non fu d’accordo a darle ulteriori gioie.

L’ultimo torneo vinto in carriera arrivò nel 2002 a Madrid, battendo in finale, curiosamente, Chanda Rubin

L’anno seguente, sempre a Parigi, si chiuse un cerchio epocale. Nell’ultimo tappeto rosso in carriera, la Graf sconfisse la n.2 Davenport nei quarti, la n.1 Hingis in finale (negandole così il Career Grand Slam) e in semi la n.3… Monica. Dieci anni prima si erano affrontate su quello stesso campo per la prima volta, ora per l’ultima. Era davvero ufficiale: il millennio era finito.

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