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Sharapova e Wimbledon: dove tutto cominciò, tutto è diventato un incubo

Quindici anni fa, il 3 luglio 2004, Maria Sharapova trionfava a Wimbledon mettendo le mani a 17 anni sul primo titolo Slam in carriera.

Oggi, 2 luglio 2019, Maria Sharapova ha vissuto un’altra, l’ennesima giornata nerissima di un’ultima parte di carriera che sembra ormai gridare “basta” ma che si sta scontrando con una dannata voglia da parte della russa di non mollare. Non qui. Non ora.

A giudicare da qualche chiacchierata con gli inviati a Wimbledon, la conferenza stampa post ritiro contro Pauline Parmentier sembrava accompagnare i pensieri più cupi. Mai si ricordava una Sharapova così devastata. Aveva tenuto la testa anche quando annunciava al mondo intero di essersi rovinata la carriera per colpa di un farmaco divenuto illegale poche settimane prima e che ha continuato illegalmente ad assumere. Aveva tenuto la testa altissima quando si è scontrata più e più volte con i giornalisti in conferenze stampa dallo sfondo particolarmente “sanguigno”. Oggi, invece, si è presentata con gli occhi lucidi, piangendo, distrutta fisicamente e mentalmente.

Sta combattendo contro un fisico che non risponde più, e la sua autonomia, intesa come salute, sembra sempre più ridotta al lumicino. Sta cercando la via per guarire, per cercare un modo per sentirsi ancora bene. Si ferma, si riferma, è costretta a lunghi periodi di pausa, ha già annunciato che molto difficilmente sarà in campo dopo lo US Open per il finale di stagione. Pur cercando di limitare l’attività fisica, il corpo non risponde più.

Sarebbe da ignoranti pensare sia una questione legata all’assunzione del meldonium. E non in termini offensivi, ma proprio perché si arriverebbe a ignorare quello che è stato il percorso fisico di Sharapova prima che scoppiasse lo scandalo doping. La Sharapova fermata dalla WADA nel 2017 è la stessa che 10 anni prima subiva un gravissimo infortunio alla spalla, che perdeva un anno e rientrava incapace di servire, beccandosi insulti e critiche per i tanti doppi falli, ma tirando avanti per la sua strada, come ha sempre fatto. Abbiamo più volte parlato di come lei, da quel problema nel 2007, ha saltato poco meno di 5 anni di attività sportiva negli ultimi 11 a causa di infortuni. Non è una questione di meldonium. E tutto quello di cui soffriva prima, a livello fisico, lo sta subendo ora a velocità tripla.

Il ritiro contro Pauline Parmentier, arrivato sul punteggio di 4-6 7-6(4) 5-0 suona molto male perché sarebbe stato più decoroso per i canoni della correttezza poter giocare un ultimo game e chiudere, anche con un mesto 6-0, ma la russa non se l’è sentita di andare a servire un’altra volta dopo un medical time out avuto pochi minuti prima. Il dolore era aumentato, le era impossibile continuare a giocare e a quel punto che si fermasse sul 4-0 o 5-0 cambiava nulla. La francese non ha perso l’occasione per scadere in un commento poco carino (“ritirarsi sul 5-0 non è sinonimo di classe, ma da lei non mi aspetto altro”) mentre la sua rivale entrava in conferenza stampa con gli occhi lucidi, arrivando a far scendere qualche lacrima tra una risposta e l’altra, facendo preoccupare i tanti presenti che quello fosse un segnale di resa definitiva a un’evidenza ormai sempre più grande.

Siamo stati vicinissimi all’annuncio del ritiro, dell’annuncio di fine carriera. Questa è la sensazione più grande dopo le dichiarazioni che parlano con grande sconforto di un incubo, fisico, che sembra non arrivare mai a una conclusione positiva. Non sono bastati i 10 giorni di lavoro intensivo in Spagna, non sono bastati tre mesi di riabilitazione dall’intervento alla spalla. Non sono bastati i 4 mesi presi tra fine agosto e inizio gennaio. Non è servito a nulla cercare di mettere una pezza qui, una là, perché alla fine la coperta è sempre più corta. L’autonomia fisica lo scorso anno sembrava essere giunta a tre, quattro partite di fila. Ora a stento arriva a due consecutive. In Australia si è trovata a servire nel terzo set contro Ashleigh Barty alcune prime che non superavano i 130 chilometri orari. Oggi negli ultimi due game non riusciva più a colpire col rovescio.

E poi quello sguardo forse per la prima volta davvero sul punto di gettare la spugna, quelle parole pronunciate con un filo di voce. Una scena già vista in questo Wimbledon dalle emozioni così forti per gli atleti. Alexander Zverev, Stefanos Tistsipas e Naomi Osaka sono solo alcuni dei giocatori e giocatrici che prima di lei si sono seduti nella sala conferenze principale e non hanno retto al momento, parlando di fallimento e tragedia. Lei, occhi lucidi, ha detto di voler sperare di tornare a star bene, ma che futuro l’aspetta? Le domande sono tante, e i dubbi sono enormi. Lo diciamo da tanto, e regolarmente pur nella speranza di trovarci smentiti (perché non è bello e non è giusto essere noi a dire “basta, ritirati” a un atleta di ogni sport: una cosa che loro si augurano, a un certo punto, è quello di poter decidere del proprio futuro senza forzature) ecco che i problemi si ripresentano, e ogni volta in maniera sempre più seria.

Si può contestare la scelta di abbandonare sullo 0-5, ma per chi ha imparato a conoscere un minimo Sharapova sa che non lascerebbe mai pur dopo aver subito un tracollo. Non lascerebbe mai anche sotto 0-3, con già evidente dolore, perché per quel carattere indomito sa che finché c’è una possibilità lei deve crederci. Non si vincono 3 Slam e non si torna a essere numero 1 in questo enorme calvario che l’ha accompagnata dal 2007 a oggi se non si ha una testa così. E dopo quel medical time out tutto è naufragato, ancora peggio, fino a costringerla al primo ritiro in carriera in uno Slam. Il problema è che è veramente complicato pensare possa esserci ancora qualcosa per lei in questo sport. Lo ama, lo ama ancora, altrimenti non ci starebbe così male e non si dannerebbe l’anima nel tentativo di dare un senso a questi sforzi. Ma lì dove tutto ebbe inizio, Sharapova potrebbe anche aver realizzato che il suo tempo è sempre più vicino alla parola fine.

Diego Barbiani

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