Partita fantastica.
Finale epica.
Già gli aggettivi si sprecano in pagine e pagine di giornali in tutto il mondo.
Livello tecnico impensabile e spettacolo, insieme alla tensione e a clamorosi colpi di scena ci hanno messo davanti agli occhi una finale come da anni a Wimbledon non se ne vedevano, per incertezza, conflitto di stili, scambi e tocchi di magia. Ma al tempo stesso, senza nulla togliere alle altezze di intensità raggiunte da Djokovic e Federer (rigorosamente messi in ordine di vincitore e vinto), ci hanno magari fatto perdere di vista il fatto che ancora una volta, anche a Church Road come in quasi tutte le edizioni slam delle ultime stagioni, alla fine a trionfare non sia stato un tennis prettamente di attacco, ma di ribattuta, basato su solidità, ritmico-atletica e mentale. Un tennis difficilissimo, sia ben chiaro, ma pur sempre lontano anni luce da quello a cui eravamo abituati prima dei famosi “rallentamenti”, prima della “terba”, che faceva della ricerca del vincente e dello scambio veloce il suo pane quotidiano. Certo, anche allora avevamo i Courier e gli Agassi, ma non è che poi abbiano fatto incetta di trofei…
Certo, domenica si sono visti scambi e soluzioni di classe da lasciare a bocca aperta chiunque, ma non certo così “incastrati” nella tipicità del tennis da erba a cui si assisteva con Laver, Borg, McEnroe e Sampras. Per dirla in modo più preciso, i colpi di genio a cui ormai assistiamo (lungi da noi lamentarcene, sia chiaro) anche a Wimbledon non sono molto diversi da quelli che vediamo in Australia o a Flushing Meadows dopo tutto. In uno Wimbledon che ormai ha perso quasi completamente quella sua unicità di una volta, dettata da una superficie che era imprevedibile e che dettava delle proprie basi tecniche di gioco, ci siamo trovati fra le mani una finale dove due antagonisti con stili diversi che hanno dando il massimo (o quasi) ci hanno fatto assistere ad uno spettacolo favoloso, il quale però alla fine non dista molto da quello che avremmo potuto vedere (o che abbiamo già visto), sempre fra questi due a New York e in parte a Melbourne o a Parigi.
Tutto questo discorso non certo per sminuire la vittoria di un Djokovic più abile nel leggere i momenti, più solido mentalmente e più testardo di un Federer che, guarda caso, ha deciso, come purtroppo spesso gli è capitato in passato, di smettere di attaccare proprio quando più contava, ovvero sui match point a favore. Si può ricondurre la cosa quanto si vuole alla solidità mentale di Nole e alla sua forza di tirarsi fuori dalle buche più profonde, eppure è indubbio come un giocatore della caratura di Roger, nel momento clou forse di tutta la stagione, abbia finito per sbagliare prime di servizio, buttare dritti in corridoio come se stesse dando la palla al raccattapalle o per gettarsi a rete a casaccio dopo due secondi di scambio quasi sperando che l’altro sbagliasse. Perché il secondo match point è stato tutto fuorché un attacco…
Il pensiero che forse sarà passato nella testa di Federer prima di quel servizio in rete sul 40-15 (insieme ai famosi 4 match point di New York) sarà stato forse un semplice “E se me la ributta di qua?”
Perché ormai, anche a Wimbledon, comanda chi rimanda di più, chi risponde sulla riga e non più magari tra le stringhe delle scarpe a metà campo, chi riesce a trasformare una difesa in attacco. Certo, non un tennis di pura difesa, ma nemmeno un tennis di attacco volto a cercare il vincente. Un tennis, se lo si può chiamare così, di “contrattacco”, volto a mettere in difficoltà l’altro a suon di ritmo e profondità, teso quasi a farlo andar fuori di testa, per poi sferrare il colpo vincente, sì, ma spesso dopo che l’avversario si è fatto un bel po’ di tergicristallo in giro per il campo.
Ai più attenti non sarà sfuggito come nei primi due tie break vinti Nole non abbia fatto non tanto neanche un errore gratuito (a quelli pensava Roger!), quanto nemmeno un vincente. Gli assenti, vedendo le statistiche a fine partita senza sapere il risultato, avrebbero pensato a un pesce d’Aprile nel sentire che aveva vinto Djokovic. E al tempo stesso lo show straordinario a cui abbiamo assistito non ci ha fatto notare il dato dei serve & volley di Nole a fine match: zero. Nada. Nichts.
Insomma, anche Wimbledon ormai si è assuefatto al filo conduttore che nel tennis di oggi “vince prima chi ha testa, rispetto a chi ha i colpi”. Una volta a Londra vinceva, o così si soleva dire, chi batteva, oggi chi „ri-batte“. Vince il tennis ragionato sul tennis di intuito. Vince chi si mette lì e dice “famolo giocà, io ribatto colpo su colpo, se è mi deve battere lui”… Non che il primo sia necessariamente meno spettacolare del secondo. E non che ci sia niente di sbagliato. Queste sono questioni di gusto che si lasciano a libere e giuste proprie interpretazioni, come è lecito che sia. Magari dovremmo chiederci come mai questo tennis debba essere uguale ovunque lo si giochi e perché quello che era lo slam dell’estro improvvisato e del genio si sia accomunato agli altri tornei diventando anche lui un torneo da secondo colpo, da ragionamento, da calcolo. Magari la domanda che dovremmo porci è quale tipo di tennis abbia bisogno in fondo più dell’altro per farci trasudare passione come nella finale di domenica scorsa. Perché con tutto il rispetto, non c’è Nole senza Roger; e anche un Murray-Djokovic, con i due che giocano a specchio, somigliava in confronto più una gara di sbadigli.
Il confronto di stili diversi ci ha dato una grande partita, negarlo vorrebbe dire aver guardato il gran premio al post del tennis. Eppure anche stavolta, anche a Wimbledon, a spuntarla è stato nuovamente non il giocatore che ha cercato il colpo risolutore per tutta la partita ma quello ragionato, di “ribattuta”, che ha atteso il momento, che ha resistito a colpi, che ha sfiancato l’avversario a suon di contraccolpi.
Una volta Wimbledon era il regno di chi sapeva fare più vincenti. Adesso è come gli altri tornei dello slam, quello di chi sbaglia meno, di chi sopravvive al quarantacinquesimo colpo (ebbene sì, abbiamo visto anche questo!), delle difese esasperate in scivolata e di chi cerca, come punto A del libro della tattica, una risposta da rimettere sulla riga di fondo campo prima di un passante, perché quello ormai serve molto ma molto meno, e magari poi ti capita di trovarlo su un match point giocato un po’ a casaccio…
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